Avvenire, 12 marzo 2025

In Serbia soffia forte il vento del cambiamento ma Bruxelles stenta a prendere posizione sulle gigantesche proteste di piazza che da mesi stanno facendo traballare il regime di Aleksandar Vucic. Eppure, le istanze di quella che è stata definita la “primavera serba” dovrebbero essere del tutto condivisibili dall’Unione Europea: giustizia, democrazia e fine della corruzione in un sistema dai chiari tratti autocratici, sul quale le Ong per i diritti umani e gli organismi di monitoraggio della libertà di espressione lanciano da tempo forti segnali d’allarme. Dal novembre scorso a Belgrado, in piazza Slavija, si tengono raduni più imponenti di quelli che un quarto di secolo fa portarono alla cacciata di Slobodan Milosevic dopo le guerre balcaniche.
La mano rossa insanguinata, simbolo della protesta che rappresenta il “sangue sulle mani” delle autorità, è già comparsa in oltre duecento città della Serbia in una mobilitazione che dura da mesi e non accenna a placarsi.
Il profondo malumore che covava da tempo all’interno della società serba è esploso dopo il grave incidente del primo novembre scorso, quando la tettoia della nuova stazione ferroviaria di Novi Sad, la seconda città del Paese, è crollata all’improvviso uccidendo quindici persone, tra cui due bambine. Quella tettoia, appena ristrutturata da un consorzio di aziende cinesi, è diventata la metafora del malaffare e della corruzione che da tempo inquina la politica serba. La popolazione ha cominciato a scendere in piazza accusando il governo di dare priorità ai progetti di sviluppo rispetto agli standard di sicurezza e di non affrontare la corruzione sistemica che minaccia gravemente lo stato di diritto. Le dimissioni del primo ministro Milos Vucevic e del sindaco di Novi Sad, Milan Duric, non sono bastate a placare la piazza. I manifestanti hanno chiesto la pubblicazione dei documenti relativi al contratto d’appalto per il restauro della stazione ferroviaria ma il governo non li ha ascoltati ed è iniziato il rimpallo delle responsabilità. Il consorzio cinese ha spiegato che quel lavoro non rientrava nel pacchetto di ristrutturazioni previsti dagli accordi della Nuova via della seta ma è stato smentito subito da alcuni consulenti locali. Nel frattempo, le proteste sono divampate dando vita al più grande movimento sociale di tutta l’ex Jugoslavia, che contesta frontalmente l’amministrazione del presidente Aleksandar Vucic. Una protesta che non è stata innescata dai partiti di opposizione, ma è nata nelle scuole e nelle università e con il trascorrere dei mesi si è allargata a vasti settori della società serba.
La risposta delle autorità non è stata molto diversa da quella messa in atto di recente dai governanti di altri paesi dell’Europa dell’est. In Georgia, ad esempio. Le forze di polizia hanno cominciato ad arrestare i manifestanti e a disperdere i cortei a suon di pestaggi e cariche violente. Davanti alla Facoltà di Arti drammatiche di Belgrado gli studenti sono stati aggrediti dagli attivisti del Partito Progressista Serbo (Sns), vicino a Vucic, e una studentessa è stata ferita gravemente a colpi di mazza da baseball. Altre aggressioni violente contro i dimostranti si sono registrate a Novi Sad, a Požarevac e in altre città. Il 16 gennaio, durante un presidio nella capitale, un’auto lanciata a tutta velocità ha investito gli studenti e ha ridotto una ragazza in fin di vita. Il clima di intimidazione non ha fatto altro che alimentare la rabbia ampliando la base di sostegno degli studenti. Gli scioperi continuano a susseguirsi uno dopo l’altro e altri settori della società civile si sono uniti alla protesta, a cominciare dagli agricoltori (storicamente vicini al partito di governo), che hanno promesso di proteggere gli studenti con i loro trattori. A Belgrado la parola d’ordine è diventata “Kuda na protest?” (“Dove si va a protestare?”) ma ormai tutto il paese è diventato un crocevia di lotte quotidiane che si moltiplicano.
Nei cortei spicca però l’assenza di bandiere dell’UE: c’è chi ancora rimprovera a Bruxelles la gestione delle guerre nell’ex Jugoslavia e il bombardamento di Belgrado del 1999 ma molti ritengono anche che l’Unione Europea non sia favorevole alla caduta di Vucic perché lo considera comunque un elemento di stabilità in un paese che si trova pericolosamente in bilico tra l’Occidente e la Russia.
Aleksandar Vucic è saldamente al potere da oltre un decennio, ovvero da quando divenne primo ministro nel 2014 e poi presidente della Repubblica tre anni più tardi. In gioventù è stato ministro dell’informazione nel governo di Slobodan Milosevic ed è riuscito a emarginare l’opposizione con sistemi clientelari e una retorica populista e anti-occidentale che contrasta con le sue azioni sempre più orientate nella direzione opposta. Secondo Tatjana Dordevic, corrispondente dall’Italia per vari media serbi, tra i serbi è ormai diffusa la sensazione che Vucic sia giunto al capolinea e che il tentativo di organizzare manifestazioni filo-governative (com’è accaduto nel febbraio scorso, con i fedeli del presidente mobilitati in autobus e in treno a spese dei contribuenti) rappresenti uno degli ultimi colpi di coda di un regime ormai al collasso. Per delegittimare le manifestazioni di questi mesi Vucic ha insinuato più volte, attraverso il suo profilo Instagram, che le proteste siano in realtà manovrate dalle potenze occidentali decise a rovesciarlo per destabilizzare la Serbia. Sia la Russia che la Cina hanno dato credito alle sue affermazioni avvalorando l’ipotesi di una regia estera dietro le manifestazioni anti-Vucic. Accuse che appaiono quantomeno bizzarre, considerando che l’UE è rimasta a lungo in silenzio di fronte a quanto stava accadendo a Belgrado spingendo qualcuno – anche all’interno dell’Europarlamento – ad accusare Bruxelles di anteporre gli interessi economici ai diritti umani e alla democrazia in Serbia.
“C’è chi ritiene che la mancata risposta dell’Europa sia dovuta al fatto che nel luglio scorso Vucic ha sottoscritto con l’UE un partenariato strategico per la fornitura di materie prime – in particolare il litio – sfruttando una contestatissima miniera acquisita dalla multinazionale anglo-australiana Rio Tinto nella valle del fiume Jadar”, spiega Andi Hoxhaj, docente di legge al King’s College di Londra, secondo il quale “le proteste hanno dimostrato che la comunità internazionale ha l’interesse a sostenere Vucic perché lo ritiene un partner costruttivo per la cooperazione regionale e per la stabilità nei Balcani occidentali”.
Ma anche quando ha iniziato a prendere posizione, Bruxelles ha dato una risposta timida e ben lontana da quando aveva fatto, per esempio, di fronte alle proteste in Georgia. Dopo mesi di silenzio, la commissaria europea per l’allargamento Marta Kos ha pubblicato una lettera aperta per chiedere un’indagine rapida e imparziale sugli incidenti che hanno preso di mira i manifestanti in Serbia esprimendo preoccupazione per le aggressione della polizia contro gli studenti. Poi, nel corso di un dibattito svolto alla presenza dei membri dell’Assemblea nazionale serba, ha ribadito l’impegno della Commissione europea a seguire da vicino gli sviluppi politici in Serbia.
I manifestanti non intendono accettare soluzioni di compromesso che non prevedano riforme democratiche capaci di rafforzare realmente lo stato di diritto in Serbia. E continuano a radunarsi e a marciare quasi ogni giorno. Per sabato 15 marzo si prepara un’altra grande manifestazione nella capitale: gli organizzatori hanno fatto sapere che sarà la più imponente di tutte quelle svolte finora. Il presidente Vucic, dopo aver fatto appello al dialogo sostenendo di aver già soddisfatto le richieste degli studenti, adesso ha cambiato completamente approccio alla crisi e, in un discorso alla nazione, ha dichiarato che sabato a Belgrado si aspetta “una violenza su vasta scala”, denunciando una radicalizzazione della protesta sostenuta dalle opposizioni.
GERMANIA: INASPRIMENTO REPRESSIVO NEI CONFRONTI DEI CURDI
Gianni Sartori
Il 12 marzo la polizia tedesca ha arrestato diversi attivisti curdi nel corso di perquisizioni nella sede di un centro comunitario curdo e di alcune abitazioni a Kiel e a Lübeck. Alle 5,30 del mattino con ampio spiegamento di forze e con l’ausilio dei cani. “Sfondando le porte, saccheggiando gli appartamenti, sequestrando telefoni e documenti”. Stando almeno ai comunicati di Defend Kurdistan Kiel (diffuso pubblicamente da Annette Tunde) e di Rote Hilfe Kiel (diffuso da Anja Sommerfeld), due organizzazioni che hanno espresso solidarietà agli arrestati. Mostrando inoltre (sempre stando ai comunicati) “poco riguardo per i familiari non accusati, tra cui bambini e persone malate”.
Gli arrestati sono accusati in base agli articoli 129a e 129b del codice penale tedesco di aver agito a favore del PKK. Ma per le associazioni curde si tratterebbe di attività del tutto legali, quali manifestazioni, eventi culturali e raccolta di fondi: “in difesa dei diritti dei curdi e e per la democratizzazione della società”.
Perlomeno strano che questo avvenga in coincidenza con il cessate-il-fuoco dichiarato dal PKK e con l’avvio di un processo di pace tra movimento curdo e Stato turco.
Il giorno successivo due richiedenti asilo curdi (Adnan Kaplan e Engin Alkan) venivano consegnati dalla Germania alla Turchia in quanto secondo i giudici “le condizioni nelle prigioni turche sono migliorate e la Turchia è un paese prospero e sicuro”. Buono a sapersi, anche se qualche dubbio in proposito è legittimo.
Adnan Kaplan e Engin Alkan (richiedenti asilo in Baviera che erano stati portati nel centro per il rimpatrio di Monaco il 5 marzo) sono stati estradati il 13 marzo.
Arrestato ancora minorenne a Istanbul nel corso di una manifestazione, Adnan Kaplan aveva trascorso diversi mesi nel carcere minorile di Maltepe nel 2011.
Uscito dal carcere era rimasto paralizzato alla gamba e alla mano sinistra per una emorragia cerebrale (non si esclude a causa dei maltrattamenti subiti). Era giunto in Germania nel 2023 sia per ragioni di salute che per sfuggire alla repressione (rischia una condanna a 22 anni di carcere), ma la sua domanda veniva respinta.
Invece Engin Alkan aveva lasciato la Turchia ancora nel 2019. Accusato di appartenenza al PKK, ha già subito una condanna a otto anni e verrebbe sottoposto ad almeno altri quattro processi.
Gianni Sartori
L’ONU DENUNCIA IL MASSACRO DELLA POPOLAZIONE ALAWITA
Gianni Sartori
Dato che evidentemente “grande è la confusione sotto il cielo”, nei giorni immediatamente successivi al recente massacro di civili alawiti operato in Siria da bande jihadiste filogovernative, qualcuno (in polemica con le proteste anti-israeliane per le stragi genocide operate a Gaza da Tsvá haHaganá leYisraél ) aveva così commentato le immagini delle vittime alawite (civili, famiglie intere): “Il tutto senza reazioni furenti da parte dell’ONU o manifestazioni di protesta nelle nostre piazze contro il genocidio”.E invece l’ONU ora sappiamo che stava già raccogliendo prove e testimonianze. L’Alto Commissariato dell’ONU ai diritti umani (HCDH) ha infatti denunciato che “intere famiglie sono state assassinate nella zona costiera siriana nel corso di una operazione di pulizia etnica contro la popolazione alawita e le altre minoranze del paese”. La Commissione onusiana ha potuto documentare la morte di almeno 111 civili (90 uomini, 18 donne, tre bambini), ma le verifiche sono ancora in corso e sicuramente il conto finale sarà ben più alto (nell’ordine delle migliaia).
Tanto che l’Osservatorio siriano dei diritti dell’uomo (OSDH/SOHR) ha già documentato almeno 1093 casi di civili assassinati nel corso di una quarantina di attacchi.
Come ha sottolineato in conferenza stampa il porta-voce di HCDH a Ginevra Thameen Al-Khaita, in diverse occasioni sono state sterminate “intere famiglie, bambini e persone estranee ai combattimenti, colpendo soprattutto i villaggi a maggioranza alawita”.
E spesso si trattava di “esecuzioni sommarie perpetrate su base settaria”. Inoltre molte persone, stando alle testimonianze raccolte, sono state abbattute davanti ai familiari.
L’Alto Commissariato ha poi denunciato anche i saccheggi successivi alle stragi. Mettendo in guardia dai messaggi di odio diffusi in rete e dalla sistematica opera di disinformazione che – entrambi – contribuiscono ad alimentare le tensioni minando la coesione sociale siriana.
Intravedendo (forse troppo ottimisticamente) una soluzione, un superamento nella rapida integrazione delle milizie nell’esercito siriano.Ovviamente un richiamo severo andrebbe rivolto anche alla Turchia che continua a colpire indiscriminatamente la popolazione del Rojava. Nella notte tra il 16 e il 17 marzo un drone turco ha ucciso nove persone: padre, madre (Osman Barkal Abdo e Ghazala Osman Abdo) e sette dei loro figli (Ahin, Dijla, Delovan, Yasser, Aziza, Saleha e Avesta Osman Abdo).
Altri due bambini (Ronaida e Narin Osman Abdo) sono rimasti gravemente feriti.
Gli attacchi erano rivolti contro i villaggi curdi di Qomji e di Barkh Butan a sud di Kobane.
Gianni Sartori