Avvenire, 27 novembre 2024
Non sono bastate le sentenze di due tribunali delle Nazioni Unite – la Corte Internazionale di Giustizia e il Tribunale Penale dell’Aja – per convincere una parte dell’opinione pubblica, in Bosnia e in Serbia, che il massacro di uomini e ragazzi compiuto dai serbo-bosniaci nel luglio 1995 a Srebrenica è stato un genocidio. Per fermare il negazionismo non è servita neanche una legge varata nel 2021 dall’Alto Rappresentante della comunità internazionale che ha proibito la negazione del genocidio e l’esaltazione dei criminali di guerra. Al contrario, quel provvedimento ha scatenato lunghe proteste che sono state rinfocolate da una recente risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che ha istituito l’11 luglio come giornata di riflessione e commemorazione sull’ultimo genocidio europeo.
Il rapporto annuale pubblicato alcuni mesi fa dal Memoriale di Srebrenica ha documentato centinaia di violazioni della legge e ha evidenziato persino un aumento dei casi dopo l’entrata in vigore della legge. Molti politici in Bosnia e in Serbia sostengono ancora che il genocidio non sia mai avvenuto usando argomenti simili a quelli di chi nega l’Olocausto o il genocidio armeno. Nei Balcani la guerra per la verità si continua a combattere sui mezzi d’informazione, nelle scuole, nelle chiese e nelle strade. Il revisionismo si può toccare con mano in luoghi come Prijedor, una delle città-simbolo della pulizia etnica degli anni ’90. Alla periferia industriale di questa cittadina della Bosnia nordoccidentale, sul retro di un parcheggio dove la gente lascia l’auto per fare la spesa c’è un grande edificio abbandonato con il tetto di metallo. È ciò che resta di quello che nel 1992 divenne il campo di prigionia di Keraterm, in cui centinaia di persone vennero stipate in spazi privi di aria, di acqua e di servizi igienici, e poi sottoposte a continui maltrattamenti, stupri e torture. “Nella primavera di quell’anno le milizie serbe assediarono i villaggi intorno alla città, prelevarono la popolazione non serba dalle case separando gli uomini dalle donne e dettero inizio alle deportazioni. Gli uomini furono condotti nei locali di questa ex fabbrica di ceramiche, le donne le portarono invece nella vicina località di Trnoplje”, ci ha spiegato Edin Ramuljić, uno dei pochi sopravvissuti all’inferno di Keraterm, che torna qui spesso per raccontare quell’orrore a chi è disposto ad ascoltarlo. Ha lo sguardo triste e perso nel vuoto, ogni tanto sfoglia un raccoglitore e mostra alcune foto di quegli anni per far vedere quello che molti vorrebbero cancellare per sempre.
Nel 1992 Edin abitava con la sua famiglia in un villaggio vicino, quando finì rinchiuso in questo edificio insieme a centinaia di altri residenti della zona. “Qui dentro sono morti anche mio padre e mio fratello. Io sono riuscito a salvarmi per miracolo, perché i soldati credettero che fossi poco più che un bambino. In realtà avevo 21 anni ma sembravo molto più giovane della mia età”. “Però da allora provo un enorme senso di colpa, perché non ho potuto condividere gli ultimi momenti di vita di mio fratello e di mio padre”, confessa.
Edin parla nella sua lingua e le sue parole risulterebbero incomprensibili, se non fosse per la traduzione di Azra Nuhefendić, veterana del giornalismo jugoslavo che si impegna da anni per far conoscere storie come questa. Ma ancora più incomprensibile è il motivo per cui un luogo della memoria come questo sia ancora oggi trascurato e del tutto privo di spiegazioni su quanto accadde appena tre decenni fa. Nonostante le prove, le testimonianze e le sentenze della giustizia internazionale, Keraterm è oggi uno dei tanti simboli del trionfo dei negazionisti. Davanti all’ex fabbrica trasformata in lager, confusa tra i rifiuti e le auto parcheggiate, c’è una piccola targa dedicata agli uomini che furono uccisi qui trent’anni fa. Solo la caparbia ostinazione di Edin e di altri ex deportati ha consentito che ci fosse almeno questo piccolo, quasi invisibile, tributo alla memoria di quelle vite travolte dall’odio. Nel 1997, un paio d’anni dopo la fine della guerra, un’approfondita inchiesta di Human Rights Watch denunciò che molti dei responsabili della feroce pulizia etnica compiuta a Prijedor erano ancora in città, impuniti, e ricoprivano persino cariche di potere. Da allora si sono susseguiti i processi all’Aja e le condanne dei principali responsabili. Centinaia di procedimenti sono stati aperti nei tribunali locali. Ma non è bastato per avere giustizia e per costruire una memoria minimamente condivisa di quei crimini, come aveva auspicato a suo tempo Antonio Cassese, il grande giurista italiano che fu il primo presidente del Tribunale per l’ex Jugoslavia.
Per quelli come Edin la guerra non è mai finita. “Mio padre, come tanti altri uomini che furono deportati qua, aveva lavorato in questa fabbrica prima che fallisse, alla fine degli anni ‘80. Poi è stato una delle vittime del cosiddetto massacro dell’hangar numero tre. Nella notte tra il 23 e il 24 luglio 1992 le guardie del campo rilasciarono gas di scarico nei dormitori e quando i detenuti del campo uscirono dalla porta per sfuggire al fumo, circa duecento persone furono falciate dal fuoco delle mitragliatrici. I loro corpi sono stati ritrovati nelle fosse comuni disseminate nelle campagne qua intorno”. Il fratello di Edin, che aveva appena tre anni più di lui, fu invece trasferito in un altro campo di concentramento e i suoi resti non sono mai ritrovati. Secondo l’ultimo rapporto dell’International Commission on Missing Persons di Sarajevo sono circa settemilacinquecento le persone che risultano ancora disperse dall’ultima guerra. Anche nel centro di Prijedor non esiste un monumento che ricordi quell’orrore e si preferisce favorire l’oblio, sebbene il Tribunale dell’Aja abbia accertato che tra il 1992 e il 1995 qua furono uccisi 3176 civili, in gran parte di etnia non serba. Che circa 50mila persone furono espulse dalla città e circa 30mila furono detenute nei campi di Keraterm, Omarska e Trnopolje e in decine di altri. Tutto continua a essere contestato, negato, messo a tacere. Edin Ramuljić però, non si arrende e insieme a pochi altri superstiti si batte da anni nelle aule dei tribunali, costretto ad ascoltare avvocati difensori che fanno di tutto per negare le prove schiaccianti di quei crimini pur di sottrarre alla giustizia i tanti criminali rimasti impuniti. La costruzione di un memoriale ai bambini assassinati a Prijedor è stata bloccata dall’amministrazione cittadina guidata dal partito nazionalista SNSD di Milorad Dodik, che rifiuta qualsiasi discussione sull’argomento. “Sto ancora cercando i resti di mio fratello e non mi darò per vinto finché non li avrò trovati e finché i responsabili della sua sparizione forzata e della sua morte non saranno processati e condannati”, assicura Edin, che a volte incontra ancora i suoi carcerieri per la strada o al supermercato. Nella regione di Prijedor è un attivista molto noto, un sostenitore della pace e dei diritti umani. Ma alla fine è stato costretto lui ad andarsene, a lasciare il luogo dov’è nato e cresciuto insieme alla sua famiglia, perché il suo nome compare in numerose liste nere e teme ancora per la propria incolumità. “I negazionisti hanno vinto perché quelli come me sono stati ridotti al silenzio e nessuno vuole più ascoltare le nostre storie”, ci dice sconsolato prima di congedarsi.
Riccardo Michelucci
L’OSDH DOCUMENTA NUOVI CRIMINI DI GUERRA CONTRO I PRIGIONIERI DEL MMC COMMESSI A MANBIJ DALLE MILIZIE FILO-TURCHE
A RAQQA L’ISIS POTREBBE COGLIERE L’OCCASIONE PER RIALZARE LA TESTA
Gianni Sartori
Già il 9 dicembre i mercenari di Ankara avevano giustiziato decine di feriti del Consiglio Militare di Manbij (MMC, alleati dei curdi), ricoverati in un ospedale militare.
Ora, il 12 dicembre, l’Osservatorio dei Diritti dell’Uomo (OSDH) ha denunciato nuovi crimini efferati compiuti dalle medesime bande jihadiste: l’uccisione di altri esponenti del MMC prigionieri di guerra. Come confermano alcuni video ottenuti dall’OSDH in cui si vedono esponenti delle milizie filo-turche aggredire e uccidere prigionieri inermi del MMC.
Da giorni soldati turchi e miliziani dell’esercito Nazionale Siriano (SNA, in cui si sono riciclati molti miliziani provenienti dall’Isis)) commettono impunemente furti, saccheggi, sequestri di persone e uccisioni nella città occupata di Manbij.
Coraggiosamente, visto il clima, la popolazione di Manbij è scesa in strada per protestare contro tali arbitrii. Le scene della protesta (foto, video…) sono state diffuse nelle reti sociali.
Brutti segnali anche da Raqqa. Dopo che la città era divenuta suo malgrado “capitale” del soidisant “Stato Islamico” (e centro di addestramento per quei terroristi che colpivano in mezza Europa, v. in Francia), la “battaglia per la liberazione di Raqqa” era cominciata il 6 giugno 2017. Il 17 ottobre dello stesso anno (dopo quattro mesi di aspri combattimenti) le Forze democratiche Siriane giungevano finalmente a eliminare gli ultimi presidi degli islamisti.
Da allora i tagliagole dell’Isis non avevano più dato segni di vita in città. Purtroppo, complice il nuovo clima incerto e confuso che atraversa la Siria post-Assad, pare che stiano rialzando la testa (o almeno ci provano). Il 12 dicembre, mentre la popolazione assisteva all’alza-bandiera del nuovo vessillo siriano in piazza Al-Naim, uomini armati sparsi tra la folla hanno aperto il fuoco (come confermano alcuni video diffusi in rete) ferendo sia civili che membri delle forze di sicurezza interna (asayish). Per dovere di cronaca, altre fonti hanno parlato di “spari incontrollati di festeggiamento” non necessariamante riconducibili a esponenti dell’Isis. Alla reazione delle forze di sicurezza che intendevano disperdere gli assembramenti, parte dei presenti avrebbero risposto con lanci di pietre. Complessivamente si parla di una cinquantina di feriti. I media filo-turchi (a cui hanno fatto eco alcuni siti “campisti”, forse in cerca di nuovi sponsor dopo essere rimasti orfani di Bashar Hafiz al-Assad) hanno colto l’occasione per diffondere fake-news in merito a una presunta “ribellione della comunità araba” nei confronti delle FDS e dell’AADNES (l’amministrazione autonoma arabo-curda del Rojava che ha appena riconosciuto l’attuale governo siriano).
Gianni Sartori