Il dramma delle donne di Auschwitz

Avvenire, 17 gennaio 2025


Il veleno di Auschwitz era a rilascio lento, e una volta inoculato era capace di uccidere le sue vittime anche molto tempo dopo. Tra i sopravvissuti c’è chi si è tolto la vita o ha perso la ragione. Ma anche chi trovò la forza per ricominciare a vivere fu a volte tradito dal proprio fisico distrutto. Per molte donne deportate nei campi di concentramento il prezzo della sopravvivenza fu la sterilizzazione. Oltre alle indicibili violenze, alle privazioni e alle umiliazioni molte di esse furono costrette a subire mostruosi esperimenti medici che avrebbero segnato i loro corpi per sempre.

Nel suo ultimo libro Quando imparammo la paura. Vita di Laura Geiringer, sopravvissuta ad Auschwitz (Marsilio, pp. 160, euro 17) lo storico Frediano Sessi fa luce su un capitolo a lungo misconosciuto della Shoah, sul quale finora in Italia non erano stati pubblicati studi di rilievo: quello delle donne sottoposte ai cosiddetti trattamenti sperimentali dal professor Carl Clauberg. Una di esse era Laura Geiringer, una ragazza triestina – ebrea battezzata – che finì ad Auschwitz con tutta la sua famiglia e alla fine fu l’unica dei suoi parenti a salvarsi. Dopo la liberazione del campo rimase ricoverata per mesi nell’infermeria del lager insieme ad altre donne che, come lei, erano state sottoposte a esperimenti sulla sterilità femminile.
Pur essendo l’unica sopravvissuta della sua famiglia all’orrore del campo di concentramento, Laura scelse di ricominciare a vivere. Tornata in Italia poco più che ventenne, ricominciò a lavorare e si iscrisse all’università sognando un futuro da ingegnere. Tra il giugno e il novembre del 1949, a distanza di quattro anni dal suo ritorno a casa, affidò i suoi pensieri alle pagine di un quaderno scolastico nel quale descrisse i drammi che aveva vissuto. La sua raccolta di memorie copre la fuga da Trieste con i familiari, il periodo dell’arresto e la prigionia nel campo di transito italiano di Fossoli, dal quale venne deportata ad Auschwitz il 22 febbraio 1944, sullo stesso convoglio di Primo Levi. La sua cronaca dei giorni trascorsi nel campo è però soltanto abbozzata. La narrazione si interrompe il 17 aprile di quello stesso anno, dopo il racconto della quarantena, con una semplice parola – “basta” – che secondo Sessi rivela la sua ferma decisione di mantenere il silenzio e il segreto sulla terribile esperienza vissuta nel blocco medico sperimentale del professor Clauberg. Il memoriale di Laura Geiringer è la fonte primaria dalla quale lo storico mantovano, autore di opere di grande spessore sull’universo concentrazionario nazista, è partito per ricostruire la breve vita della giovane triestina e riannodare i fili della memoria di un gruppo di donne che hanno lasciato poche tracce della loro vita perché dopo la liberazione scelsero di rimanere in silenzio, costrette a fare i conti con un dolore senza rimedio e consapevoli che a quei tempi non sarebbero state né credute né aiutate. Qualcuna di loro provò a raccontare la sua storia in seguito, inoltrando richieste di aiuto che rimasero però sempre inascoltate. Nel 1963 la torinese Stella Valabrega scrisse a Mike Bongiorno chiedendo di concorrere a una trasmissione televisiva col chiaro intento di vincere i soldi necessari per recarsi in Polonia a deporre fiori al crematorio di Auschwitz dove erano morti i suoi genitori. Non ricevette alcun riscontro. Molti anni dopo, nel 1977, la stessa Valabrega contattò anche la redazione della noto show televisivo Portobello ma anche la sua lettera indirizzata a Enzo Tortora rimase senza risposta. In quel gruppo di donne c’erano Luciana Nissim e Bianca Morpurgo, Matilde Beniacar e Vanda Maestro, per la quale Primo Levi scrisse nel 1946 una struggente poesia auspicando “Di potere ancora una volta insieme / Camminare liberi sotto il sole”. Il libro riporta in appendice le biografie di queste donne, le cui storie rivelano la loro straordinaria capacità di dar vita a una comunità di resistenza all’interno del blocco femminile di Auschwitz aggiungendo un tassello importante agli studi sulla Shoah. Le cosiddette detenute per scopi sperimentali erano prigioniere scelte per sperimentare i metodi di sterilizzazione di massa che i nazisti volevano applicare su larga scala, a guerra finita, sui popoli slavi. L’obiettivo era anche quello di dare corso a una massiccia politica di sterilizzazione delle donne considerate di razza inferiore che potevano essere mantenute in vita e sfruttate come manodopera schiava senza il rischio che generassero figli. Dopo un’apposita conferenza tenutasi il 7-8 luglio 1942, Himmler affidò l’incarico di trovare il sistema ottimale a Carl Clauberg, primario del reparto di malattie femminili presso l’ospedale di Chorzow. Clauberg iniziò il suo lavoro ad Auschwitz alla fine del 1942, nella baracca numero 30 del campo femminile di Birkenau. Nell’aprile dell’anno seguente gli fu poi messa a disposizione una parte del blocco 10 del campo di Auschwitz I, dove vennero alloggiate, di volta in volta, dalle cento alle quattrocento deportate di varie nazionalità.
Integrando il diario di Laura Geiringer con nuovi documenti d’archivio e testimonianze inedite, Sessi racconta con il rigore storico e la prosa scorrevole che contraddistingue anche le sue opere precedenti la vicenda di Laura e della sua famiglia dalla serenità dell’infanzia all’ignominia delle leggi razziali; dalla tentata fuga alla detenzione a Venezia; dal trasferimento ad Auschwitz al suo tentativo di reagire con ogni mezzo a quel male assoluto. Ebrei di nascita ma non di fede, prima di essere deportati ad Auschwitz i Geiringer si ritrovarono nel campo di transito di Fossoli imbattendosi anche in don Francesco Venturelli, il sacerdote del paese che assisteva gli ebrei di religione cattolica e dopo la guerra fu ucciso dai comunisti. Laura lo ricorda con affetto in alcuni passaggi del suo diario.
L’augurio che un’anziana conoscente le rivolse prima della partenza per il campo di concentramento – “voi giovani forse vi salverete” – sembrò alla fine avverarsi. Tornata a casa, Laura Geiringer cercò in tutti i modi di non crollare e di rifarsi una vita, finché il suo fisico segnato dalla prigionia e soprattutto il veleno che era stato iniettato nel suo corpo non ebbero il sopravvento. Nell’aprile del 1951 morì ad appena ventisette anni, a causa di un carcinoma ovarico, in conseguenza degli esperimenti che aveva subito ad Auschwitz.

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