Il Belgio riconosciuto colpevole di crimini contro l’umanità in epoca coloniale


Ci sono voluti più di settant’anni, ma alla fine il Belgio ha subito la prima condanna per i crimini contro l’umanità commessi in epoca coloniale. La sentenza, pronunciata lunedì scorso dalla Corte d’appello di Bruxelles, è destinata a passare alla storia e potrebbe costituire un precedente significativo anche per le altre ex potenze coloniali europee, responsabili del feroce sfruttamento del continente africano. Al centro del caso ci sono cinque donne oggi settantenni originarie del Congo belga, Monique Bitu Bingi, Léa Tavares Mujinga, Noëlle Verbeken, Simone Ngalula e Marie-Jose Loshi.
I giudici hanno condannato lo stato belga a risarcirle e a pagare un milione di euro di spese legali stabilendo che negli anni ‘40 furono vittime di “rapimento sistematico” e “segregazione”.

All’epoca erano cinque bambine figlie di coppie miste che furono separate con la forza dalle madri e rinchiuse in istituti religiosi dallo stato belga che governava Congo, Burundi e Ruanda. La loro esistenza e quella di migliaia di altri bambini cosiddetti métis, ovvero nati da madri congolesi e padri europei, allarmava profondamente i governanti del Belgio, che li considerava una minaccia all’ordine coloniale suprematista bianco.
Per risolvere quello che i funzionari belgi della prima metà del XX secolo chiamavano “il problema dei mulatti”, lo stato coloniale mise in atto una politica sistematica volta a identificare e a segregare i bambini nati da coppie miste strappandoli dalle braccia delle madri e costringendoli sotto la tutela dello Stato. Una politica resa possibile da due decreti promulgati alla fine dell’Ottocento dal famigerato re Leopoldo II – il satrapo che gestì il Congo come un suo feudo privato – e rafforzata dopo la Seconda guerra mondiale con una legge in base alla quale i bambini potevano essere allontanati dai genitori “per qualsiasi motivo”.
Monique, Léa, Noëlle, Simone e Marie-Jose avevano dai tre ai cinque anni quando, tra il 1948 e il 1953, finirono nella missione cattolica di Katende, nel Congo centro-meridionale a centinaia di chilometri dai loro villaggi d’origine. Un luogo dove furono registrate con nuovi cognomi e false date di nascita, e poi costrette a crescere tra gli abusi, le violenze e le privazioni, riuscendo a ottenere la cittadinanza belga soltanto molti decenni dopo, in seguito a lunghe battaglie legali.
In anni recenti il Belgio ha cominciato a fare i conti con il suo passato coloniale, ma la vera svolta è arrivata soltanto nel 2018, quando l’allora primo ministro Charles Michel presentò le scuse ufficiali ai figli meticci della colonizzazione affermando che lo Stato aveva violato a lungo i loro diritti umani fondamentali. Le cinque donne si rivolsero allora a Michèle Hirsch, un’avvocata di Bruxelles nota per aver rappresentato le vittime del genocidio in Ruanda, e dopo averle raccontato le loro infanzie segnate dallo sradicamento forzato, dalla fame, dalle violenze e dagli stupri, la incaricarono di intentare una causa legale contro lo stato belga.
Le cinque donne non si sono arrese neanche di fronte a un percorso che si rivelò subito in salita, e al tribunale di primo grado che nel 2021 ha respinto le loro istanze sostenendo che durante l’era coloniale l’allontanamento forzato e la segregazione non costituivano un crimine. Dopo una battaglia legale durata altri tre anni, lunedì scorso la Corte d’appello ha rovesciato il verdetto di primo grado affermando che è stato violato il loro diritto all’identità e alla vita familiare e tutto ciò ha causato loro gravi danni psicologici. La corte, nel motivare la sua sentenza, ha sottolineato come il Belgio abbia continuato a implementare questa politica anche dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando il concetto di crimine contro l’umanità era già stato codificato dallo statuto del Tribunale di Norimberga.
I giudici di Bruxelles hanno inoltre ordinato allo Stato belga di risarcire le ricorrenti per le sofferenze causate dalla rottura del legame con la madre e l’ambiente domestico. Un risarcimento non ingente, che le cinque donne avevano quantificato in 50mila euro ciascuna per limitare i rischi in caso di mancata condanna. La loro avvocata, Michèle Hirsch, ha dunque tutte le ragioni per definirla una decisione storica che potrebbe incoraggiare altre vittime di crimini coloniali a cercare giustizia. Ancora oggi le ferite di quell’epoca restano profonde e altri paesi dal passato coloniale come la Gran Bretagna, la Francia e la Germania affrontano da tempo richieste di risarcimenti per i crimini commessi dai loro imperi.
Durante il lungo dominio del Belgio sui territori dell’attuale Repubblica Democratica del Congo, del Ruanda e del Burundi si calcola che circa 20mila bambini nati da coloni bianchi e donne nere locali siano stati colpiti dalla politica di allontanamento forzato e segregazione. Secondo Rym Khadhraoui, ricercatrice di Amnesty International che ha seguito da vicino il caso delle cinque donne meticce del Congo, “questa sentenza rappresenta un passo verso la definitiva assunzione di responsabilità del colonialismo europeo”.

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