Hemon: “Trump è stato eletto per punire gli immigrati come me”

Avvenire (inserto Gutenberg), 10 gennaio 2025


“Essere sfollati cambia il modo in cui si concepisce la memoria di noi stessi, la lingua, la casa, la nostra visione del mondo. È un cambiamento irreversibile che non coincide, però, con la perdita dell’identità”. Aleksandar Hemon ha mescolato spesso il suo vissuto ai suoi romanzi: nato a Sarajevo in una famiglia di origini ucraine, quando nel 1992 scoppiò la guerra in Bosnia si trovava negli Stati Uniti per motivi di studio e divenne immediatamente uno sfollato. Si stabilì a Chicago e cominciò a fare fortuna nel mondo della letteratura.

“Ho scelto di essere americano senza avere alcuna connessione organica con gli Stati Uniti, direi quasi senza entusiasmo. Meno che mai ne ho oggi dopo il ritorno di Trump, che stato è eletto proprio per punire gli immigrati come me. Anche se lavoro nel campo della fiction non sono in grado di immaginare quanto potrà essere catastrofico il suo ritorno alla Casa Bianca”. I romanzi di Hemon ruotano quasi sempre intorno al tema dello sradicamento, della fuga dal proprio Paese, della ridefinizione della propria identità attraverso il confronto con altri luoghi. Come hanno fatto prima di lui autori come Conrad, Nabokov e Kundera, ha abbandonato i codici linguistici con i quali è cresciuto e ha cominciato a scrivere libri in un’altra lingua. Negli anni si è affermato come romanziere ma anche come saggista e opinionista per il New Yorker, la Paris Review e il New York Times. Fresco vincitore del Grand Prix de Littérature Américaine con il suo ultimo romanzo Il mondo e tutto ciò che contiene, Hemon è appena tornato in libreria con una nuova edizione di una delle sue opere principali da tempo diventata introvabile, Il progetto Lazarus (uscita per la prima volta con Einaudi nel 2010 e ora con Crocetti, traduzione di Maurizia Balmelli, 320 pagg. euro 20), un romanzo che all’epoca gli valse il National Book Critics Circle Award.
Che dibattito ha creato il suo lavoro negli Stati Uniti? Come sono visti i temi che tratta nei suoi libri e la sua narrazione multilingue?
Direi che non hanno ottenuto una grande accoglienza da parte dell’opinione pubblica. Sia l’editoria statunitense che la maggioranza dei lettori non sono infatti interessati all’immigrazione, bensì all’assimilazione. Sono interessati alle storie di persone che vengono in America per diventare americane. Quando scrissi il primo racconto per il New Yorker, il caporedattore dell’epoca mi suggerì di concludere la storia con una frase in cui il protagonista affermava di essere diventato americano. Mi rifiutai dicendogli che piuttosto preferivo non pubblicarla e alla fine vinsi io. Non ho mai sopportato la spinta assimilazionista che condiziona la cultura e la letteratura degli Stati Uniti. Non mi sono mai sentito meno americano di adesso. Quanto al multilinguismo, direi che è qualcosa che confonde concettualmente gli americani, che tendono spesso a rifiutare la complessità.
A proposito di multilinguismo, nel suo ultimo romanzo Il mondo e tutto ciò che contiene ci sono molte parole non tradotte.
Perché ha voluto rendere a tratti difficile far comprendere appieno ai lettori quello che ha scritto?

È un libro che per molti aspetti parla proprio del linguaggio, nel quale ho usato tre tipi di parole straniere. Quelle tradotte nel paragrafo successivo, quelle spiegate altrove nel testo e infine quelle non tradotte. Volevo che fosse il lettore a trovare un significato a quelle parole mentre leggeva il libro. Volevo esplorare il concetto di linguaggio maccheronico, usando più lingue nello stesso discorso, un processo che è assai comune per gli immigrati.
Che rapporto hanno i rifugiati con la loro identità?
Dalla notte dei tempi l’esistenza dell’essere umano è sempre stata segnata dalle migrazioni. L’atto stesso di muoversi nello spazio è cruciale per lo sviluppo umano. Inizialmente i rifugiati hanno un’identità che è quella del loro paese di origine. Poi tutto ciò che sperimentano nel corso delle migrazioni li porta ad assimilare una nuova lingua, una nuova cultura, nuovi modi di vivere e di pensare. La loro identità iniziale, penso ad esempio alla mia di bosniaco, viene scossa, messa in discussione e trasfigurata in più modi. È la migrazione a trasformarla in qualcosa di molto assai più ricco e complesso. Francamente mi stupisce vedere invece che spesso i rifugiati vengono rappresentati come una massa di persone prive di identità.
Perché i migranti fanno così paura ai politici?
Credo che spesso non sia nient’altro che una forma di razzismo. L’immigrazione bosniaca negli Stati Uniti negli anni ‘90 venne accettata molto più di quanto accade oggi con i rifugiati africani. In fondo anche gli irlandesi e gli italiani all’inizio del XX secolo furono ferocemente discriminati ma per loro assimilarsi fu più facile perché erano bianchi. Il razzismo è un metodo usato dai politici per creare paura nella popolazione bianca. Non c’è mai stato un tempo in cui gli esseri umani non migrassero ma una volta i confini tra gli imperi erano porosi e mutevoli, e non si faceva molta attenzione al passaporto. Poi però si è affermata l’idea di uno stato nazionale, l’Italia per gli italiani, la Germania per i tedeschi, la Serbia per i serbi e così via.
Anche la storia della sua famiglia è stata segnata da continue migrazioni. Per questo ha sentito il bisogno di scrivere un libro biografico sui suoi genitori?
Da generazioni nessuno, nella mia famiglia, muore nel Paese in cui è nato. I miei familiari sono sparsi in giro per il mondo in Australia, in Italia, in Francia, in Svezia e in Inghilterra. I miei genitori si sono ritrovati in Canada, come rifugiati, nel 1993 e da allora hanno cercato di ricostruirsi una vita in quel paese conservando il passaporto di una nazione che non esiste più come la Jugoslavia. In quel libro (I miei genitori/ Tutto questo non ti appartiene) ho cercato di raccontare il loro modo di vivere, i valori i quali cui sono cresciuti, il loro sradicamento valoriale, linguistico e culturale.
Quanto è ancora legato alle sue radici bosniache? Quali sono i suoi sentimenti, ad esempio, quando fa ritorno nella sua città, Sarajevo?
Mi sento sempre molto bosniaco. Adesso più che mai, forse perché oggi è imbarazzante vivere in un paese fortemente razzista come gli Stati Uniti. Il mio legame principale con Sarajevo e la Bosnia, però, è il lavoro. Sono coinvolto in molti progetti letterari, teatrali e musicali, direi che ho una relazione dinamica, non nostalgica con quella città. Tempo fa ho capito che la nostalgia non serve a niente. O meglio, è produttiva soltanto in chiave letteraria, come forma di narrazione.

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