
Franca Jarach morì ad appena diciott’anni in un giorno d’estate del 1976, nelle tetre acque del mare al largo di Buenos Aires che in quei mesi terribili inghiottirono migliaia di persone cancellandone le esistenze, i sogni e le speranze in un mondo migliore. Tra le tante storie storie tragiche che hanno solcato il XX secolo, quella dei desaparecidos argentini ha un posto particolare in quanto a ferocia e a crudeltà ma rappresenta anche uno straordinario esempio di lotta, di resistenza e di amore per la vita da parte di chi è stato costretto a sobbarcarsi il gigantesco onere della memoria. In quegli anni furono infatti tantissime le madri che decisero di non soccombere al dolore di una perdita troppo grande – peraltro amplificata dall’assenza di corpi su cui poter piangere – e tra loro Vera Vigevani Jarach, la madre di Franca, è senza dubbio la più nota tra quelle di origine italiana.
Per tutta la vita Vera è stata condannata a valorizzare e a tramandare la memoria di sua figlia. Ha dovuto quasi trasfigurarsi in lei e in quella coraggiosa gioventù che i militari spezzarono in un modo così disumano, fino a diventare un simbolo della resistenza pacifica al regime che stava annientando un’intera generazione. È principalmente grazie a lei e al suo lavoro tenace e instancabile di partigiana della memoria se oggi sua figlia Franca rivive, a quasi cinquant’anni dalla sua sparizione, nella splendida biografia che gli ha dedicato lo storico Carlo Greppi (Figlia mia. Vita di Franca Jarach, desaparecida, Laterza, 352 pagg., 19 euro). Un lavoro che ha portato lo studioso torinese a incontrare decine di persone che avevano avuto a che fare con Franca durante la sua “corta vida” e che adesso sono in parte disperse nella diaspora argentina seguita agli orrori della dittatura.
I militari che presero il potere con un colpo di stato il 24 marzo 1976 erano decisi a reprimere nel sangue ogni forma di conflitto sociale e Franca, giovane attivista dei collettivi studenteschi che osavano opporsi al regime, era la vittima predestinata di un regime che silenziosamente ma inesorabilmente cominciò a far sparire giovani, sindacalisti, lavoratori e intellettuali. Anche quando il suo sequestro divenne un rischio reale, Franca non volle ascoltare chi la consigliò di lasciare il Paese e il 25 giugno 1976, appena tre mesi dopo il golpe, i militari la sequestrarono insieme ad alcuni compagni di scuola. Per i suoi genitori, subito impegnati in ricerche tanto frenetiche quanto inutili, si accese una speranza quindici giorni dopo, quando Franca telefonò a casa cercando di rassicurarli. Disse che era stata arrestata ma stava bene, e che presto avrebbero potuto riportarla a casa. Soltanto in seguito si venne a sapere che la ragazza era prigioniera nella famigerata Esma, l’Accademia Meccanica della Marina di Buenos Aires – uno dei più terribili centri di tortura di quegli anni -, e che quella telefonata era soltanto un diversivo adottato dai militati per far attenuare il flusso costante di persone che chiedevano notizie dei propri cari nelle caserme e nelle stazioni di polizia. Da quel momento in poi, la foto in bianco e nero nella quale Franca, con un sorriso spensierato e struggente, reclamava giustizia per sé e per i suoi compagni sarebbe diventata una presenza costante nelle manifestazioni per la verità e la giustizia, in mezzo a quelle degli altri desaparecidos. Ogni giovedì, per circa quarant’anni, sua madre Vera – figlia di ebrei milanesi costretti a scappare dall’Italia a causa delle leggi razziali – avrebbe interrotto alle tre del pomeriggio il proprio lavoro alla redazione dell’Ansa di Buenos Aires per raggiungere il raduno settimanale delle Madri di Plaza de Mayo, di cui fu una delle fondatrici.
La sorte della giovane di origini italiane è rimasta ignota per tanti anni finché, nel 2000, una superstite dei campi di concentramento del regime di nome Marta Alvarez non è stata in grado di ricostruire i suoi ultimi giorni di vita. Raccontò che Franca era stata eliminata appena un mese dopo il suo arresto insieme ad alcuni compagni per far posto ai nuovi arrivati nei centri di tortura. Pochi giorni dopo quella telefonata rassicurante che aveva illuso i suoi genitori, i militari l’avevano costretta al cosiddetto “volo” gettandola ancora viva nell’Oceano o nell’immenso Rio de La Plata. Un modo tristemente comune, in quegli anni, per sbarazzarsi dei desaparecidos senza lasciare di loro alcuna traccia.
Il libro di Greppi ha il grande merito di ricostruire ogni singolo momento e ogni piccola sfaccettatura dell’esistenza terrena di Franca, restituendoci l’immagine di una ragazza dal temperamento forte, avida di conoscenza e sicura dei propri ideali di giustizia nonostante la giovane età. Una ragazza che prima di essere rapita aveva partecipato attivamente alla vita della sua scuola, ad attività politiche e sociali, maturando un profondo senso di solidarietà umana e di lotta contro le ingiustizie. In pochi anni era riuscita a seminare una ricchezza di relazioni umane che Greppi è riuscito a ricomporre dopo una lunga e paziente ricerca dividendosi tra l’Europa e le Americhe, raccogliendo un numero imponente di interviste e di materiale secondario. Oltre a vivisezionare l’archivio personale di Vera Jarach, che ha da poco compiuto 97 anni ma ha continuato fino ai giorni nostri la sua attività con le Madres, con l’associazione dei familiari dei desaparecidos ebrei e di altre realtà minori. Il suo lavoro ha cominciato a dare frutti concreti, anni fa, con l’abolizione delle leggi che a lungo hanno garantito l’impunità per gli aguzzini del regime e con alcune sentenze esemplari che hanno spalancato le porte del carcere per alcuni di loro. L’anziana madre ha sempre sostenuto che la vicenda dei desaparecidos argentini dev’essere considerata anche un capitolo della storia italiana. Sia perché tra le vittime della dittatura ci sono stati centinaia di italiani e di oriundi d’origine italiana, sia perché all’epoca la nostra diplomazia è stata in larga parte assente e in un certo senso ha contribuito alla tragedia della dittatura argentina. Il dettagliatissimo lavoro di Greppi non rende giustizia soltanto alla memoria di Franca Jarach e alla caparbietà di sua madre: è la biografia di un’intera generazione che è stata cancellata ma non dimenticata.
INDIA: TRA INCIDENTI SUL LAVORO E DEFEZIONI DALLA GUERRIGLIA MAOISTA, ALLA FINE CHI CI RIMETTE SONO SEMPRE ADIVASI E DALIT
Gianni Sartori
Mentre il governo indiano esulta per i risultati ottenuti nel contrastare il movimento naxalita (la guerriglia di ispirazione maoista sorta nel 1967, recentemente decimata da uccisioni e defezioni), non va certo migliorando – anzi – la condizione di dalit e adivasi. Oppressi, sfruttati, discriminati, umiliati e offesi.
Come conferma un recente “incidente” sul lavoro di otto membri delle caste inferiori.
La tragica morte di questi lavoratori (di età compresa tra i 22 e i 55 anni) è avvenuta il 3 aprile nel villaggio di Kondavat, nel distretto di Khandwa (Madhya Pradesh).
Cinque di loro erano scesi – per ripulirlo – in un profondo pozzo dove, a scopo rituale, era prevista l’immersione dei fedeli per ammirare le immagini delle divinità indù Isar e Gauri. Morti asfissiati a causa delle esalazioni velenose emanate dall’acqua (dato che il pozzo era rimasto a lungo inattivo).
I primi cinque (Mohan, Anil Patel, Sharan Sukhram, Arjun, Gajanand) erano scesi per compiere il lavoro di ripulitura rimanendo intossicati e non più in grado di risalire. Altre tre lavoranti (Baliram, Rakesh e Ajay) erano allora generosamente scesi nel pozzo restando a loro volta intrappolati.
Stando alle prime dichiarazioni dell’amministrazione locale, ai familiari delle vittime dovrebbe venir corrisposto un risarcimento di 400mila rupie (l’equivalente di circa 4200 euro). Non molto per una vita umana (anche se si tratta di membri delle caste inferiori), ma comunque molto di più di quanto avviene in genere.
Diverse organizzazioni sindacali hanno denunciato la scarsa mancanza di rispetto per gli standard minimi di sicurezza. Ulteriormente ignorati nel caso di lavoratori dalit.
Intanto – come già ricordato (ma repetita iuvant) – il movimento naxalita, sopravvissuto per oltre mezzo secolo, appare in grave difficoltà. La resa di una cinquantina di maoisti alle forze di sicurezza del 30 marzo nel distretto di Bijapur suonava come una conferma dell’efficacia della nuova strategia basata sull’istituzione di taglie cospicue e di premi per chi abbandona le armi e diserta.
Oltre al fatto che negli ultimi tre mesi almeno 134 guerriglieri sono stati abbattuti nel Chhattisgarh. Sicuramente eventi poco incoraggianti per gli insorti.
Il 29 marzo altri 18 maoisti (tra cui 11 donne e il comandante Jagdish) erano stati uccisi nei distretti di Sukma e di Bijapur (Chhattisgarh) dalla Guardia di riserva del distretto (DRG) e dalla Forza di polizia centrale di riserva (CRPF).
E qualche giorno prima una trentina di maoisti erano stati eliminati nelle foreste del Bijapur dalle Forze di sicurezza delle frontiere (BSF) e dalla DRG.
Dato che quella del governo è anche (o soprattutto) una guerra contro i tribali in quanto tali, non si può certo escludere che alcuni dei presunti “combattenti maoisti” uccisi dalle forze paramilitari governativefossero in realtà inermi contadini poveri o adivasi (indigeni).
Ma probabilmente è soprattutto l’incremento delle defezioni il fattore che rischia di dissanguare il movimento naxalita.
Tra le ricompense per i disertori (50mila rupie, una casa, un pezzo di terra e la cancellazione dei reati ) e le ulteriori ricompense per le armi consegnate, l’anno scorso nella sola regione del Bastar ben 792 maoisti (cifre ufficiali) si sono arresi.
Gianni Sartori
SIRIA E TURCHIA: COSA BOLLE IN PENTOLA?
Gianni Sartori
In sintesi. Cercando appunto di sintetizzare, riassumere, interpretare quanto si dice – e non si dice – sulla questione curda in generale e sul Rojava in particolare, andrebbero forse registrati alcuni segnali di – cauto – ottimismo.
Sembra potersi concretizzare la richiesta di cessate-il-fuoco tra esercito turco e Forze Democratiche Siriane (una coalizione di forze curde, arabe e siriaco-cristiane che applicano il Confederalismo democratico) intorno a Kobane così da consentire la riparazione della diga di Tishrin costantemente bombardata fino a qualche giorno fa da droni e da F-16.
Meglio ancora – se venisse confermato – l’allontanamento (o l’integrazione nelle forze di sicurezza governative) dalla provincia di Afrin e forse anche dalle aree tra Tal Abyad e Serekeniye delle milizie filo-turche responsabili di saccheggi, stupri e uccisioni di civili. Milizie – va detto – che solo grazie all’appoggio dell’aviazione di Ankara avevano potuto costringere le FDS a ritirarsi verso est. Con la nuova situazione decine di migliaia di sfollati, profughi interni (si calcola circa la metà dei 320.000 abitanti qui presenti prima dell’invasione turca) scacciati nel 2018 potrebbero rientrare nelle loro case. La situazione verrebbe posta sotto il controllo delle forze di sicurezza curde (Asajish) in coordinamento con Damasco e con l’Amministarzione autonoma del nord e dell’est della Siria.
Meno chiaro quanto è avvenuto ad Aleppo, con il ritiro dai quartieri a maggioranza curda (Cheikh Maksoud e Ashrafiye) delle milizie curde (YPG-YPJ). Anche qui la sicurezza verrebbe garantita dagli Asayijs, sempre coordinandosi con Damasco.
Va poi ricordato che almeno un ministro del nuovo governo, quello dell’Istruzione, è curdo (per quanto non del Rojava).
Vice-rettore dell’università di Damasco all’epoca di Bachar al-Assad, avrebbe in progetto di far riconoscere anche in Siria i titoli di studio ottenuti dagli studenti di Qamishli, Raqqa e Kobanê.
Inoltre Drusi e Alawiti sembrano sembrano interessati a sottoscrivere con Damasco accordi simili a quelli (definiti “inclusivi”) stipulati dall’Amministrazione autonoma.
Ma non per questo il nuovo presidente ad interim rinuncerà alle buone relazioni con il leader dell’AKP, Recep Tayyip Erdogan Erdogan. Come confermato dalla partecipazione di Ahmed al Sharaa (alias Mohammed al Jolani) al forum di Antalya dell’11 aprile e precedentemente – in febbraio – dalla sua visita ad Ankara.
In realtà non si può certo escludere che la Turchia perseveri nel considerare la nuova Siria un suo potenziale protettorato. O quantomeno un avamposto militare (v. la base aerea T4 nella provincia di Homs).
Oltre naturalmente a pretendere l’allontanamento dal Rojava dei combattenti curdi non originari del Nord-Est siriano.
Tante notizie, spesso di segno contrastante, anche sulla Turchia (e non solo sui curdi del Bakur). Centellinate e selezionate dai media in base a ragioni non sempre comprensibili.
Per cui di alcuni eventi si parla diffusamente (anche troppo) mentre su altri scende un velo impietoso. Niente di nuovo naturalmente.
Per esempio. Qualche tempo fa Naiz, un sito basco abertzale (sinistra indipendentista) riprendeva gli articoli di Fermin Munarriz risalenti al novembre 2001
(https://www.naiz.eus/eu/2024/20241109/mas-de-cien-muertos-en-la-huelga-de-hambre-mas-extrema-de-europa).
Sottolineando come all’epoca Gara (quotidiano basco che aveva sostituito l’illegalizzato Egin) fosse stato uno dei pochi “nel mondo” a parlare dello sciopero della fame in cui – tra il 2000 e il 2003 – avevano perso la vita oltre un centinaio di prigionieri politici turchi di sinistra (oltre ad alcuni familiari e simpatizzanti). Solo un piccola precisazione. Non era stato proprio l’unico. Si parva licet, in Italia ne aveva parlato varie volte Frigidaire.
Detto questo – e fatte le debite proprozioni (dal punto di vista numerico, non qualitativo) – la cosa potrebbe ripetersi. Nella quasi totale indifferenza, dal alcuni mesi una decina di prigionieri politici della sinistra radicale turca (una donna – Yurdagül Gümüş – e nove uomini) sono in sciopero della fame illimitato. Una estrema protesta (ormai l’unica loro consentita) per le indegne condizioni in cui versano i detenuti nelle carceri speciali.
In particolare contro l’isolamento nelle prigioni di tipi S, Y e R e i trasferimenti forzati. Sempre senza che i media ne abbiano dato notizia, iniziative di solidarietà sarebbero previste (condizionale d’obbligo, non è facile averne conferma) in varie città europee. Dato che si tratta di persone (con una loro storia, una famiglia…) e non di numeri riporto i loro nomi con la data dell’inizio del loro digiuno:
Sercan Ahmet Arslan (dal18-10-2024), Serkan Onur Yılmaz (dal 9-12-2024), Mulla Zincir (dal 12-12-2024), Bakican Işık (dal 18-12-2024), Yurdagül Gümüş (dal 30-12-2024), Mithat Öztürk (dall’11-02-2025), Hasan Ali Akgün (dal 17-2- 2025), Ali Aracı (dal 17-2-2025), Ayberk Demirdöğen (dal 10-3-2025), Fikret Akar (dal 29-3-2025).
Prima di tornare a enumerare i cadaveri, sarebbe il caso di parlarne.
Gianni Sartori