il venerdì di Repubblica, 4 ottobre 2024

da Sarajevo (Bosnia Erzegovina)
Forse non è neanche corretto chiamarla distopia: in Bosnia le avvisaglie di un futuro a tinte fosche ci sono già tutte. “Nessuno a Sarajevo vorrebbe rivivere gli anni dell’assedio ma purtroppo oggi esiste davvero il pericolo di un nuovo conflitto nei Balcani perché Mosca continua a soffiare sul fuoco delle divisioni in Bosnia, in Kosovo e in Serbia”. Con il suo nuovo romanzo CVII, lo scrittore bosniaco Damir Ovčina ha lanciato un monito immaginando una nuova guerra nei Balcani, uno scenario da incubo in cui la Russia riesce a destabilizzare un territorio che non è mai stato pacificato del tutto con gli accordi di Dayton del 1995. Il suo libro ha risvegliato i fantasmi di Sarajevo riportando indietro le lancette della storia ai primi anni ‘90.
Allora la città subì l’assedio delle forze serbe guidate da Ratko Mladic dall’aprile del 1992 al febbraio del 1996. In un giorno di ottobre di ventinove anni fa, in Bosnia fu finalmente raggiunto l’accordo per un cessate il fuoco che dette respiro ai sarajevesi sotto assedio e pose le basi della pace. Ovčina, all’epoca poco più che ventenne, era un soldato della difesa territoriale bosniaca di stanza a Dobrinja, un quartiere periferico di Sarajevo vicino all’aeroporto che era rimasto completamente tagliato fuori dal resto della città. “Il pesante fardello di ciò che è accaduto allora fa parte ancora della nostra quotidianità, soprattutto da quando la guerra è tornata a bussare alle porte dell’Europa”, sostiene mentre ci accompagna nei luoghi che ha raccontato magistralmente nel suo libro d’esordio Preghiera nell’assedio (pubblicato in Italia da Keller un anno fa), un romanzo in parte autobiografico che gli è valso il confronto con autori del calibro di Vasilij Grossman e Imre Kertész.
Se da ragazzo Ovčina non avesse vissuto questi orrori in prima persona non sarebbe mai riuscito a descrivere in modo così realistico la geografia dell’assedio della sua città. Per cercare di farci comprendere quella follia ci porta a Grbavica, il quartiere nelle vicinanze del centro che durante l’assedio fu occupato dai serbi e divenne una delle linee del fronte. Attraversiamo il ponte in cui nel 1993 cadde anche un pacifista italiano, Gabriele Moreno Locatelli, colpito a morte da un cecchino. Dall’altro lato del fiume si spalanca la Zagrebačka, il lungo viale che taglia in due il quartiere. Ovčina imbocca la prima traversa a destra, che un tempo si chiamava via Lenjinova, e ci mostra un palazzo grigio a sei piani, tipica architettura socialista. È il luogo dove inizia il suo romanzo e si svolge gran parte di una trama cupa, inquietante, resa con uno stile diretto e una lingua che è specchio della desolazione e dell’impotenza di chi visse anni d’assedio. Oggi a Sarajevo regna la calma ma a poche decine di chilometri dalla città i venti separatisti serbi soffiano forte e l’alleanza tra il Cremlino e i nazionalisti guidati da Milorad Dodik appare più salda che mai. In molte aree a maggioranza serba del Paese viene ancora ribadita una lettura revisionista della storia recente in spregio alle sentenze della giustizia internazionale. I criminali condannati all’Aja continuano a essere celebrati come eroi. Da tempo gli osservatori locali dell’Osce sostengono che le iniziative dei serbi di Bosnia rischiano di minare la sicurezza e la stabilità del Paese. Il Dipartimento di Stato statunitense ripete allarmi già lanciati più volte in passato: dietro molte iniziative dei serbo-bosniaci ci sarebbe Mosca, intenzionata a sfruttare le tensioni etniche nei Balcani occidentali per destabilizzare l’intera regione. “Purtroppo l’ignoranza, la corruzione e l’affarismo sfrenato hanno inquinato la rinascita del mio Paese consumando i cervelli di coloro che dovrebbero combattere contro il male”, ci dice Ovčina, i cui romanzi sono diventati casi letterari in Bosnia. L’ultimo, CVII (non ancora tradotto in italiano), ha riacceso paure che si credevano sopite da tempo. Lui stesso definisce “un libro sulla continuità del male, sulla sua diabolica capacità di ripresentarsi in presenza di politiche di riconciliazione inefficaci” e vorrebbe che agisse da deterrente per gli smemorati o per chi ai tempi del conflitto degli anni ‘90 non era ancora nato. “Trent’anni fa una certa propaganda fece credere all’Occidente che qui ci fosse un problema tribale dovuto alla presunta litigiosità dei popoli balcanici ma in pochi intuirono la profonda influenza russa dietro le quinte”.
La sua casa di famiglia si trovava a poche centinaia di metri da una delle linee del fronte e da giovane Ovčina si ritrovò a combattere contro i suoi stessi vicini di casa. Quel palazzo c’è ancora ma adesso si trova a Sarajevo est, una municipalità che fa parte della Republika Srpska, l’entità a maggioranza serba del Paese. Ci mostra un cartello stradale in cirillico secondo il quale 157mila serbi furono cacciati da qui durante la guerra. Secondo Ovčina è la contronarrazione della guerra, “quella che vorrebbe far passare i carnefici per vittime, la stessa che viene impartita in molte scuole e università”. Accanto a un benzinaio c’è una casa ricostruita da poco: è un altro dei punti nevcitati nel suo romanzo sull’assedio. Durante la guerra era una prigione clandestina e un deposito di armi dell’esercito serbo-bosniaco.“In questi trent’anni non siamo riusciti a fare i conti con il nostro passato, ci stiamo ancora chiedendo perché tutto ciò sia accaduto e cosa avremmo potuto fare per evitarlo”, conclude. “Tutto questo tempo poteva invece essere usato per dar vita a uno stato più solido di quello che abbiamo adesso, a creare gli anticorpi contro l’influenza russa. E a ridurre i rischi di una nuova guerra”.
