Derry, quando la pace è possibile

Avvenire (Gutenberg), 25 ottobre 2024

da Derry (Irlanda del Nord)

Dopo quattro secoli di divisioni, di guerre e di eccidi la città dai due nomi ha trovato finalmente un’identità condivisa basata sulla convivenza pacifica. Alla fine dell’anno scorso le Nazioni Unite hanno dichiarato ufficialmente Derry città internazionale della pace “per i suoi progressi nella promozione del dialogo e nel superamento delle differenze”, suggellando la conclusione di una storia dolorosa che risale ai primi del XVII secolo, quando divenne strategica durante le guerre dell’età Elisabettiana. Ceduta alle imprese commerciali londinesi e ribattezzata Londonderry con un editto reale del 1613, la città si trovò al centro della contesa tra il re cattolico Giacomo II e il protestante Guglielmo III d’Orange per la Corona britannica alla fine del secolo. Fino al lungo assedio del 1689, che si concluse con la cruciale sconfitta delle truppe giacobite e la riaffermazione del potere protestante su tutta l’isola. Da allora la discriminazione anticattolica sarebbe arrivata fino ai giorni nostri esplodendo intorno al 1969, quando proprio le rivolte urbane di Derry fecero da detonatore al moderno conflitto in Irlanda del Nord.

In un’epoca non troppo lontana la città era uno dei luoghi più militarizzati e pericolosi d’Europa ma adesso – raccolti finalmente i dividendi della pace raggiunta alla fine del XX secolo – è irriconoscibile rispetto a qualche decennio fa: la guerra è solo un lontano ricordo ed è stata relegata nei musei mentre le vecchie caserme dell’esercito britannico sono state convertite in aree residenziali o in parcheggi pubblici. Oltre alla crescita economica, a un’eloquente rinascita architettonica e a una toponomastica scelta con cura per avvicinare le singole comunità, a risaltare sono i progetti virtuosi di recupero urbano portati a termine negli ultimi anni. Dietro all’austera sagoma neogotica della Guildhall, il vecchio municipio, la brezza tagliente dell’oceano ci spinge verso il Peace Bridge, il nuovo ponte pedonale e ciclabile lungo quasi trecento metri la cui forma avveniristica è una metafora della pace. Sostenuto da due pilastri inclinati in direzioni opposte per rappresentare le due comunità, il ponte parte in salita e con un percorso a serpentina ci conduce sull’altra sponda del fiume Foyle, unendo mondi un tempo lontanissimi. “L’idea di fondo è stata quella di provare a ridurre la distanza tra due aree della città che per secoli non hanno avuto quasi alcun contatto tra loro”, ci spiega Tony Doherty, portavoce del Bloody Sunday Trust. “Fino a non molti anni fa, i residenti cattolici e protestanti vivevano ancora separati in strade e in quartieri diversi, studiavano in scuole rigidamente divise su base settaria e frequentavano locali, centri culturali e sportivi distinti”.
Sull’altro lato del ponte si spalanca l’area di Ebrington Square, circa dodici ettari, nella quale è stato realizzato il più imponente progetto di rigenerazione urbana degli ultimi anni. Un tempo qui echeggiava ogni giorno il suono dei soldati che marciavano in una delle principali piazze d’armi dell’esercito britannico. Al suo interno sorgeva una gigantesca caserma risalente al 1841 che giocò un ruolo strategico sia nelle due guerre mondiali che nel corso dei “Troubles”, quando divenne in più occasioni un bersaglio per gli attacchi dell’IRA. L’intero complesso militare, chiuso definitivamente e ceduto alla città nel 2003, è stato sottoposto a un grandioso piano di recupero. Il suo antico impianto architettonico vittoriano è stato mantenuto per essere convertito in uno spazio a uso misto residenziale, commerciale e culturale che comprende un grande albergo, decine di unità abitative, uffici e attività produttive, in attesa di ospitare anche il nuovo museo della Marina militare, i cui lavori partiranno in autunno.

Delle antiche contrapposizioni non è rimasta apparentemente alcuna traccia: quella che si respira è l’atmosfera rilassata dei luoghi dediti al turismo ma non ancora invasi da schiere rumorose di visitatori. L’area dell’ex caserma di Ebrington è diventato uno dei simboli più eloquenti del percorso verso la pace e la riconciliazione compiuto da questa città a lungo martoriata dai “Troubles”, in cui fino a cinquant’anni fa era ancora in vigore il voto per censo e la minoranza cattolica era privata dei più elementari diritti civili. Merito della perseveranza e della fede nel dialogo di alcuni dei suoi cittadini più illustri a cominciare dal premio Nobel John Hume, il leader nonviolento che si ispirava a Martin Luther King. La sua eredità intellettuale e politica si respira a pieni polmoni nel Bogside, l’ex ghetto cattolico indelebilmente segnato dal massacro della “Domenica di sangue” del 1972. Finiti i tempi della guerriglia urbana, oggi il quartiere si batte fieramente per tenere in vita la memoria di quegli anni. Le sue strade e le sue piazze sono costellate di giganteschi murales commemorativi e proprio in questi giorni un nuovo grande spazio espositivo è stato inaugurato accanto all’ex gasometro per celebrare il trionfo della pace. L’hanno chiamato Peacemakers Museum , in onore ai costruttori di pace, a cominciare dallo stesso Hume. “Il museo colmerà un vuoto nella narrazione della nostra storia recente, poiché il conflitto anglo-irlandese viene tuttora rappresentato spesso in modo distorto, attraverso una lettura veicolata da Londra, secondo la quale fu causato da uno scontro di natura religiosa tra due comunità in lotta”, ci spiega il coordinatore del progetto Michael Cooper. “Qui spieghiamo invece che fu qualcosa di assai diverso. Alla base di tutto c’era la legittima rivendicazione dei diritti civili e politici che erano negati a una parte consistente della popolazione. Da lì nacque una lotta contro un potere coloniale che venne portata avanti con metodi violenti da parte dell’IRA ma anche con strumenti pacifici, impegnando gran parte della popolazione di Derry”.
Finanziato con mezzo milione di sterline dall’Heritage Fund, un fondo pubblico dedicato al patrimonio culturale britannico, il nuovo Peacemakers Museum racconta la drammatica storia recente dell’Irlanda del Nord con materiali, testimonianze e filmati d’archivio utilizzando i più moderni strumenti interattivi e ricostruendo gli ambienti dell’epoca per far comprendere ai visitatori che la vita quotidiana della città andava avanti quasi come se niente fosse, mentre era in corso un conflitto a bassa intensità che metteva costantemente a rischio la vita dei civili. Ogni sala del museo analizza l’evolversi delle singole fasi del conflitto, le proteste represse nel sangue, le tattiche militari ma anche le iniziative politiche e la diplomazia segreta che ha infine portato alla pace. Al centro della narrazione spiccano tre personaggi originari della città: oltre al premio Nobel John Hume ci sono Martin McGuinness, l’ex comandante dell’IRA diventato uomo di pace e vice primo ministro, e Mitchel McLaughlin, che fu il primo presidente dell’assemblea legislativa proveniente dall’ex ghetto cattolico. “Quello che intendiamo fornire qui è un racconto dettagliato e definitivo su quegli anni ricordando il ruolo fondamentale delle donne, a cominciare da figure come Bernadette Devlin, ma anche della cultura e della musica, dunque con uno sguardo complessivo alla società dell’epoca”, prosegue Cooper. “Non è trascorso molto tempo da quando le condizioni di vita di questo quartiere erano realmente miserabili, gli abitanti subivano discriminazioni di ogni genere ed erano privati del diritto alla casa, al lavoro e al voto di voto. Ma se ci guardiamo alle spalle ci rendiamo conto che il cammino fatto da allora è stato straordinario e può essere d’esempio in tanti altri scenari di conflitto”.

3 pensieri riguardo “Derry, quando la pace è possibile”

  1. Il recente attentato contro la sede di TUSAŞ potrebbe compromettere irreparabilmente le prospettive di una soluzione politica?
    Gianni Sartori

    Anche se gran parte dei media sembrano essersene accorti solo ora (interpretandoli come una risposta all’attentato del 23 ottobre), gli attacchi militari dello Stato turco contro i curdi, sia in Rojava che in Bashur (Kurdistan del Sud, entro i confini iracheni) non sono iniziati da ieri. In questi giorni si sono solo intensificati. Causando comunque altre perdite di vite umane e gravi danni alle infrastrutture essenziali.

    E’ del 25 ottobre la notizia della morte di un altra bambina,‎ Ferha Alberho (11 anni), nel nord della Siria. E’ stata uccisa a Manbij (villaggio di Bineye) mentre altri due minori sono rimasti feriti. Si tratta di suo fratello Semir Alberho (8 anni) e del cugino Ebdulrehman Alberho (13 anni).

    Contemporaneamente l’aviazione di Ankara bombardava con i droni un magazzino per il grano nel villaggio di Rovî, a Kobanê. Causando il ferimento di diversi lavoratori, alcuni in maniera grave.

    Stessa marcia funebre nel nord dell’Iraq (Bashur). Secondo fonti locali, nella notte tra il 24 e il 25 ottobre sono stati colpiti una decina di obiettivi, utilizzando aerei da caccia e droni. Per un totale di oltre una quindicina di attacchi. In mancanza di dati precisi sul numero delle vittime, sono invece già pervenuti i nomi di alcune delle località bersagliate: Çil Mêra e Amûd, Xeta Ereban, Girê Şehîd Şengal, Sîba Şêx Xidir, Quartiere di Hey Nasir, Valle di Şilo.

    Anche se gli attacchi turchi non erano mai cessati, le ultime operazioni sono state interpretate come una ritorsione, una rappresaglia, per quanto era accaduto a Kahramankazan. Località turca (distretto di Ankara), dal nome spesso abbreviato semplicemente in Kazan. Coincidenza, forse non casuale: proprio mentre Erdogan si incontrava in un’altra Kazan (la capitale del Tatarstan) con Putin e una trentina di altri capi di Stato per il 16° vertice dei BRICS.

    Riepiloghiamo.

    Il 23 ottobre un commando composto da due militanti curdi, una donna e un uomo (poi abbattuti dalle forze dell’ordine) avevano attaccato con granate e fucili d’assalto la sede di Turkish Aerospace Industries (TUSAŞ) a Kahramankazan (circa 40 chilometri a nord di Ankara). Causando cinque vittime e oltre una ventina di feriti tra il personale dell’azienda, nota per la produzione di droni (compresi, stando alle denunce dei curdi) quelli “utilizzati dall’aviazione turca per bombardare quotidianamente il Kurdistan”.

    Episodio assai inquietante. Sia per la perdita di vite umane, sia per la possibile conclusione negativa (ancor prima dell’inizio) dei colloqui per eventuali accordi di pace. Non sono poi mancate ipotesi un tantino azzardate. Come quella di un possibile coinvolgimento del Mossad.

    L’attacco veniva poi rivendicato – tramite l’agenzia Firat – dal Comando del Quartier Generale del Centro di Difesa Popolare (HSM).

    Sempre stando al comunicato di HSM, l’operazione (di fatto suicida) era opera di un gruppo autonomo del “Battaglione degli Immortali” formato da Asya Alî (Mine Sevjin Alçiçek) e Rojger Hêlîn (Ali Örek). Pianificato da tempo, non avrebbe avuto “alcun legame con l’agenda politica discussa in Turchia nell’ultimo mese”. Ossia, lo scopo non era quello di sabotare le eventuali trattative tra Ocalan e governo turco.

    Obiettivo dei due militanti era la Turkish Aerospace Industries in quanto “centro produttore delle armi che hanno massacrato migliaia di civili, compresi donne e bambini, in Kurdistan”.

    Qui in febbraio veniva realizzato il prototipo del supercaccia Kaan (variante dei Lockheed F35) in grado di operare sia con pilota che come drone.

    Stando a quanto riporta la Repubblica, la Turkish Aerospace Industries collabora con l’Italia (in particolare con Leonardo) nella produzione dell’addestratore Huriet (in versione caccia-bombardiere), dell’elicottero da combattimento T129 Atak (derivato dal Mangusta italico e, pare, fornito anche al Pakistan) e delle fusoliere per gli elicotteri AW139 dell’Augusta.

    Nel comunicato di HSM si definiva la TUSAŞ un “obiettivo militare” e di “non voler attaccare i civili” (ma le vittime sarebbero tutte tecnici, dipendenti dell’azienda). Inoltre veniva fatta “autocritica per altre azioni” compiute in precedenza e si esprimeva rammarico per la “vittima civile del 23 ottobre” (in riferimento al tassista). Con la stessa sigla (“Battaglione degli Immortali”) nel 2023 era stato rivendicato un attentato contro il Direttorato della Sicurezza di Ankara.

    Immediata, si diceva, la ritorsione turca che già nella notte tra il 23 e il 24 ottobre compiva decine di raid aerei sia nel nord dell’Iraq che in Rojava. Colpendo stazioni di servizio, centrali per la fornitura di elettricità e dell’acqua, forni per il pane, officine, ospedali, scuole, raffinerie, check- point… e uccidendo numerosi civili tra cui alcuni bambini (decine i feriti).

    Secondo fonti curde, in data 26 ottobre gli attacchi turchi sarebbero già stati ben 685 (99 con aerei da ricognizione, 13 con aerei da caccia e 573 con colpi di artiglieria). Alla stessa data le vittime accertate (in maggioranza civili) sarebbero 17 (di cui 14 civili e 3 delle forze di sicurezza). Una cinquantina i feriti (39 civili e 9 delle forze di sicurezza).

    Per Hesen Koçer, co-presidente aggiunto del Consiglio Esecutivo dell’Amministrazione Autonoma Democratica del Nord e dell’Est della Siria, questi attacchi andrebbero classificati come “genocidio”.

    L’autentico obiettivo sarebbe quello di “costringere gli abitanti a emigrare realizzando una vera e propria sostituzione etnica nella regione”.

    Non ci sarebbero “altre ragioni per tali aggressioni che tuttavia esprime esattamente quale sia la mentalità dello Stato turco nei confronti dei curdi”.

    Tutti indistintamente classificati come “terroristi da eliminare”.

    Ritenendo evidentemente che “ogni curdo in qualsiasi parte del Kurdistan costituisce un pericolo oggettivo per la Turchia”.

    In sintesi “lo Stato turco insiste nel voler distruggere il popolo curdo. Prima avevano parlato di pace e di soluzione politica, poi hanno ripreso ad attaccare”.

    E’ ormai ben percepibile e diffusa la sensazione che in Medio Oriente si stanno producendo cambiamenti significativi. E questo potrebbe indurre Ankara sia a più miti consigli (mostrandosi fautrice di pace e accettando di dialogare con il movimento curdo), sia a inasprire l’opera di repressione- liquidazione (al limite dell’etnocidio). Proprio per impedire che i Curdi ne possano beneficiare.

    Il recente incremento degli attacchi nel nord e nell’est della Siria e nel nord dell’Iraq sembra una conferma più della seconda che della prima ipotesi. Massacrare donne, anziani e bambini, annichilire abitazioni e villaggi, potrebbe configurarsi come crimine di guerra. In più occasioni il movimento curdo ha chiesto all’Unione Europea, agli Stati Uniti e alla Russia di “rompere il silenzio” su quanto avviene nel Kurdistan. Così come si è domandato “perché le potenze internazionali non chiudono gli spazi aerei all’aviazione turca e invece ne tollerano la politica genocida consentendo gli attacchi contro i curdi”.

    OCALAN COME MANDELA

    Oltre un anno fa, il 10 ottobre 2023, veniva lanciata una campagna internazionale e globale denominata “Libertà per Abdullah Öcalan e una soluzione politica alla questione curda”. Inevitabile paragonarla a quella degli anni settanta e ottanta per la liberazione di Nelson Mandela. Sappiamo che Mandela aveva consumato ben 27 anni della sua vita in carcere, in gran parte a Robben Island.

    Così Öcalan, ancora imprigionato (dalla sua cattura in Kenia del 1999) nell’isola-prigione di İmralı. Dove per circa 35 mesi non ha avuto contatti con il mondo esterno

    Intellettuali, scrittori, esponenti della società civile e militanti di 75 paesi (in circa 120 città) hanno organizzato conferenze stampa e seminari per chiederne la liberazione insieme a una “soluzione politica” per la questione curda. Inoltre sono stati organizzati eventi per leggere i libri di Öcalan a cui sono state spedite centinaia di migliaia di cartoline (anche se non sappiamo se siano pervenute).

    Sul recente incontro tra il leader curdo prigioniero e un membro della sua famiglia, il deputato del partito DEM e nipote di Abdullah Öcalan, Ömer Öcalan (da cui sarebbe scaturita una proposta per il superamento del conflitto) è intervenuta anche Leyla Zana.

    Definendolo “un raggio di speranza per tutti coloro che denunciano i conflitti e le guerre”.

    “Tutti noi – ha dichiarato – ci troviamo di fronte alla responsabilità storica di por fine a questa guerra che dura ormai almeno da un secolo”.Aggiungendo: “Noi che abbiamo sete di pace, saremo al fianco di coloro che tentano di trasformare questa evoluzione positiva della situazione (la visita a Ocalan nda) in una soluzione democratica sul piano giuridico e politico. Quelli che gettano i semi della pace in Medio Oriente devono sapere che noi continueremo a innaffiarli”. Ben sapendo comunque quanto “il problema è profondo, pesante”.

    Ma intanto (trattative in corso o meno), per Ankara rimangono una priorità la corsa al riarmo e gli investimenti nell’industria della difesa.

    Infatti la Turchia ha già previsto per il 2025 un aumento del 165% (rispetto al 2024) delle spese militari. A tal scopo l’Akp (il partito di Recep Tayyip Erdogan) ha lanciato la proposta di tassare le carte di credito. Già in avanzato stadio di elaborazione un disegno di legge che prevede una tassa di 750 sterline turche (circa 20 euro) da applicare alle carte con una linea di credito massima fino a 100mila Try (circa 2.700 euro).

    Gianni Sartori

  2. IN MORTE DI LICIA PINELLI

    Considerazioni e divagazioni minimaliste su una vecchia agendina stropicciata…e su un’intervista mancata

    Gianni Sartori

    Ogni tanto, sfogliando la vetusta agendina che non mi decidevo a buttare (non dopo aver almeno ricopiato nomi, numeri e indirizzi di quelli ancora in vita, sempre meno), lo ritrovavo. Tra quello di Claudio e l’altro della redazione di “A”, di fatto Paolo Finzi (o era quello di Fabio Santin? Devo controllare…).

    Me l’aveva dato, penso ormai più di quindici anni fa se non venti, Claudio Venza spronandomi a intervistarla. Non me l’ero mai sentita. Ci sono incontri, interviste o semplici conversazioni che – per me almeno – risultano troppo dolorose. Di quelle che poi ti porti appresso nel tempo. Per dirne un paio, alla madre di Patsy O’Hara (prigioniero politico repubblicano morto in sciopero della fame nel 1981) e a Duma Kumalo uno dei “Sei di Sharpeville” (vittima di torture, scampato alla pena capitale e scomparso prematuramente nel febbraio 2006). Semplicemente devastanti per quanto mi riguardava.

    Per cui, dopo aver rimandato di giorno in giorno la telefonata e l’intervista alla vedova di Pino, avevo deciso di lasciar perdere.

    Ma ogni tanto, ritrovando appunto il numero di telefono (un fisso, vecchia maniera; lo sentivo familiare, mai posseduto un cellulare), ci ripensavo.

    E anche in questi giorni, mentre riconsultavo il libro di Salvini (il giudice) “La maledizione di Piazza Fontana”, mi ero chiesto se lei lo avesse mai incontrato. E cosa ne pensasse di certe tardive “rivelazioni” (in gran parte già acquisite dai compagni e dal movimento) qui pubblicate.

    Fermo restando che comunque andrebbe letto e consultato (il libro intendo), per lo meno per certe informazioni in passato “accantonate”, trascurate (o semplicemente rimosse). Per esempio sul ruolo rilevante di certi personaggi vicentini.

    Si narra che anche il padre di Licia (un falegname poi operaio alla Pirelli) fosse stato anarchico. Cresciuta in una casa di ringhiera in via Monza, quelle con il gabinetto (alcuni hanno scritto “bagno”, un eufemismo) in comune sul ballatorio, al freddo.

    A scanso di equivoci, chi scrive è cresciuto in quel di Casaletto (S. Piero Intrigogna) con il cesso in lamiera sitemato fuori, a fianco dell’orto.

    Come usava all’epoca per i figli – e ancor più per le figlie – dei proletari, a tredici anni entrò nel “mondo del lavoro”: Con Pino si erano conosciuti ai corsi di esperanto, una speranza – o forse un’altra illusione – di internazionalismo e pace universale.

    Ed era stata lei (così almeno mi aveva raccontato Edgardo Pellegrini) a battere a macchina, nell’ufficio del fondatore di Medicina Democratica Giulio Maccacaro, il testo de “La Strage di Stato”, pubblicato da Samonà e Savelli nel giro di sei mesi da quel dicembre di sangue.

    Riprendo in mano l’agendina e scorro le pagine. Ormai un monumento funebre con più della metà quelli “andati oltre”, la gran parte compagni: Claudio Venza, Paolo Finzi, Alex Langer, Febe Cavazzutti, Edgardo Pellegrini, i partigiani Giuseppe Sartori e Nino De Marchi, Peggy O’Hara, Tavo Burat, Bruno Zanin…

    E ovviamente tanti vicentini. Per lo più ambientalisti e antimilitaristi, magari anche antimperialisti. Forse inevitabile in una città con cinque o sei basi militari: Stefano Dal Cengio (protezionista, a Genova nel 2001…), Giorgio Fortuna (movimenti vari, U.N.A., Genova 2001, No dal Molin…), Gianfranco Sperotto (PSIUP, Legambiente, No Dal Molin…), Rino Refosco (anarchici, Radio Vicenza…), Olol Jackson (CSO Ya Basta! No Dal Molin, Bocciodromo…), Franceso Scalzotto (Presidio di Longare alla Base Pluto…), Eugenio Magri (giovanissimo partigiano, PCI, CGIL, CUB..), Alberto Carta (WWF), Luciano Ceretta (DP, Rifondazione comunista…), Arnaldo Cestaro (praticamente tutto e anche di più…)…

    Per ognuno di loro una storia condivisa di impegno, di militanza…

    E come il Guccini di sessanta anni fa, a volte anch’io “vorrei sapere a che cosa è servito…”.

    Ma almeno, mi consolo, l’importante è averci provato. In faccia al mondo e a quelli che verranno.

    Che la terra ti sia lieve compagna.

    Gianni Sartori

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