Casement, eroe romantico d’Irlanda

Avvenire, 13 agosto 2024

da Murlough Bay, Irlanda del Nord

È trascorso poco più di un secolo da quando Sir Roger Casement, il ribelle irlandese amato da alcuni dei più grandi scrittori del ‘900, chiese di essere sepolto qua. Da allora le acque dell’oceano non hanno mai smesso di infrangersi sulla baia di Murlough, di fronte a uno dei luoghi più selvaggi e poetici di tutta l’Irlanda. In uno scorcio maestoso della contea di Antrim, a picco sul mare, circondato da rocce calcaree millenarie e da dolci pendii, raggiungibile solo attraverso una strada costiera ripida e tortuosa circondata da sfumature di verde, sotto schiere di alberi che nascondono ruscelli, cascate e scogliere. Quando si raggiunge il fondo della baia mancano le parole per descrivere lo spettacolo della natura: le colline, protette dall’entroterra dalle pareti rocciose, sono in parte ricoperte da una vegetazione sontuosa e da vecchi alberi nodosi che fiancheggiano il sentiero.

Pochi giorni prima di essere impiccato nel carcere londinese di Pentonville, Roger Casement chiese che le sue spoglie fossero riportate qua per essere tumulate “sulla verde collina che domina la baia di Murlough”. Ma il suo ultimo desiderio non poté essere esaudito, perché la vendetta di Londra contro di lui fu spietata e implacabile.
Nato nel 1864 in una ricca famiglia protestante, Roger Casement era stato un diplomatico di primo piano che aveva servito l’impero britannico per sedici anni, prima in Africa e poi in Sudamerica. In quelle terre remote aveva scoperto e denunciato lo sfruttamento sistematico delle popolazioni indigene, schiavizzate e massacrate per l’interesse e la fortuna dei colonizzatori. Le sue circostanziate denunce erano state raccolte in due rapporti commissionati dal governo britannico e avevano dato vita a una campagna internazionale che costrinse il re del Belgio, Leopoldo II, ad abbandonare il controllo del Congo. Ma proprio gli orrori cui aveva assistito in Africa e nella giungla peruviana suggerirono a Casement un parallelo con quanto stava accadendo al suo Paese, l’Irlanda vittima del secolare giogo britannico. Dopo aver maturato un profondo disprezzo nei confronti dell’Impero, Casement si ritirò dal servizio consolare e divenne un fervente sostenitore della causa indipendentista irlandese. In più occasioni affermò pubblicamente che il re d’Inghilterra non era il legittimo monarca dell’Irlanda e che gli irlandesi avevano il diritto di ribellarsi in armi contro l’invasore. Ma soprattutto stabilì legami con la propaganda anti-britannica negli Stati Uniti e si recò in Germania per tentare d’indurre, senza successo, i prigionieri irlandesi ad arruolarsi a fianco dell’esercito imperiale tedesco. Il 12 aprile 1916 venne infine arrestato sulla costa occidentale dell’Irlanda mentre tentava di far arrivare un carico di armi destinate ai rivoluzionari irlandesi a bordo di un sommergibile tedesco.

Riconosciuto colpevole di alto tradimento, fu condannato all’impiccagione da un tribunale inglese: a ben poco servì la mobilitazione di alcuni dei più grandi intellettuali dell’epoca, da Arthur Conan Doyle a Joseph Conrad, da George Bernard Shaw a W.B. Yeats, che si schierarono in sua difesa paragonandolo a Garibaldi e a Cesare Battisti, l’irredentista trentino che che proprio in quei giorni stava per essere impiccato dagli austriaci.
Roger Casement venne impiccato all’alba del 3 agosto 1916, nel carcere londinese di Pentonville, dopo essersi convertito al cattolicesimo in punto di morte e aver chiesto l’eucaristia prima di salire sulla forca. Era nato nei dintorni di Dublino, a Sandycove – il luogo dove Joyce ambientò le fasi iniziali di Ulysses – ma la sua famiglia era originaria della contea di Antrim, all’estremità settentrionale dell’isola, e lì trascorse gran parte della sua gioventù. Mentre si trovava in cella ripensò spesso all’inquietante maestosità di queste scogliere, e prima di salire sul patibolo affidò i suoi ultimi voleri a una toccante lettera indirizzata a sua cugina, Elizabeth Bannister. “L’altra notte ho sognato che eravamo a Murlough Bay, sulla collina verde, affacciati a 250 metri sopra il mare, a osservare le maree impetuose del Canale del nord. Correnti agitate, vortici e maree che si sovrappongono, con la Scozia di fronte, quel panorama meraviglioso di isole, colline e acque vorticose che per la prima volta mi ha fatto comprendere cosa fosse per me l’Irlanda. […] La morte non è oscurità, ma solo un blu più profondo”.
Ma il cadavere del diplomatico che visse più vite e fu uno strenuo difensore dei popoli oppressi venne invece gettato con disprezzo in una tomba senza nome nel cortile del carcere di londinese prima di essere ricoperto dalla calce viva. Mentre W.B. Yeats gli dedicava poesie memorabili – una delle quali evocava “il fantasma di Roger Casement”, che “sta bussando alla porta di John Bull” nel tentativo vano di risvegliare la cattiva coscienza degli inglesi -, nel 1928 una gigantesca croce celtica di pietra venne eretta sul promontorio che domina la baia di Murlough, nel punto esatto dove Casement avrebbe voluto essere sepolto. I suoi resti furono restituiti allo stato irlandese soltanto nel 1965, a condizione che la sepoltura avvenisse nel territorio della Repubblica, non dell’Irlanda del Nord, perché la sua tomba poteva diventare un luogo di pellegrinaggio dei cattolici in terra protestante, rischiando di aizzare la contrapposizione tra le due comunità. Una prudenza oltremodo necessaria, considerando che la croce eretta anni prima era stata ripetutamente vandalizzata e infine fatta saltare in aria da un gruppo paramilitare protestante. A Dublino vennero organizzati funerali di Stato solenni e alla bara di Casement fu riservato un posto d’onore all’interno del cimitero monumentale di Glasnevin, nel pantheon dei martiri della libertà irlandese. Oggi, su quel promontorio dal quale si può intravedere l’estremità della penisola del Kintyre e, in lontananza, persino le isole scozzesi di Islay e Jura, c’è soltanto una grande croce di legno e un cartello a rievocare la straordinaria storia di un pioniere dei diritti umani che servì prima il re d’Inghilterra, poi la rivoluzione irlandese e venne infine impiccato come traditore. Esaudire i suoi ultimi voleri non è mai stato possibile ma ci hanno pensato alcuni grandi scrittori contemporanei a celebrarlo fino a sublimare la sua figura nel mito: dall’irlandese Colm Tóibín (che ha scritto alcuni famosi saggi su di lui usciti sulla New York Review of Books) al tedesco W.G. Sebald, che gli ha dedicato uno dei capitoli del suo Gli anelli di Saturno; ma soprattutto il premio Nobel peruviano Mario Vargas Llosa, che ha trasformato Casement nell’eroe di un romanzo epico nel suo Il sogno del celta, monumentale affresco sulla cattiveria e sulla condizione umana.

Un pensiero riguardo “Casement, eroe romantico d’Irlanda”

  1. POSSIBILE “TENTATO OMICIDIO” E UN INCENDIO DOLOSO PER SCORAGGIARE GLI ATTIVISTI AMBIENTALI IN LOTTA CONTRO L’AUTOROUTE A69

    Gianni Sartori

    Francia: la ZAD (Zone à défendre) contro la costruzione dell’autostrada A69 vittima di una misteriosa aggressione che lascia intravedere torbidi retroscena: strategia della tensione a bassa intensità?

    Nella notte tra il 12 e il 13 agosto gli oppositori all’A69 (una lingua d’asfalto di 53 chilometri – in costruzione – sostenuta dai politici locali e definito “un ecocidio economicamente scandaloso” dagli ambientalisti ) hanno subito una pesante aggressione. Erano accampati (legalmente) a Bacamp, nei pressi del cantiere della futura autostrada che dovrebbe collegare Castres (Tarn) a Toulouse (Haute-Garonne).

    Stando alla denuncia inoltrata, verso le 3 del mattino alcuni zadisti sarebbero stati aggrediti da almeno tre individui che – dopo averne bloccato uno puntandogli un coltello alla gola – spargevano da un bidone liquido infiammabile sulle tende, su un’auto e anche su un militante ambientalista. Avevano appena innescato l’incendio delle tende, dell’auto e di alcuni sacchi a pelo quando l’arrivo di altri zadisti li avrebbe messi in fuga.

    Fortunatamente nessun danno alle persone, ma sono state distrutti un’auto, qualche tenda, diversi oggetti personali e documenti cartacei (dossier, volantini …). E comunque per spegnere l’incendio son dovuti intervenire i pompieri.

    Anche se dalle indagini per ora non sono emerse responsabilità precise, resta il fatto che questo atto di violenza (definito “abbietto” dagli ambientalisti) lascia intravedere possibili dinamiche da strategia delle tensione a bassa intensità. Con provocazioni e aggressioni. E probabilmente rientravano in questa logica anche alcuni misteriosi sabotaggi (tra aprile e giugno) alle attrezzature del cantiere della ditta concessionaria Atosca. Danneggiamenti e incendi che nessun collettivo ambientalista ha mai rivendicato (tranne uno da una sigla sconosciuta e forse inventata per l’occasione: “Gang d’Insolent.e.s éclatant le Capital”) e di cui soprattutto nessun zadista si è felicitato. Ben sapendo che tali azioni sconsiderate non fanno altro che portare all’inasprimento della repressione, contribuire alla criminalizzazione del movimento. Fatte le debite proporzione, un po’ come accadeva nel secolo scorso in Val di Susa con la messa-in-scena dei soidisant “Lupi Grigi” (una provocazione costata la vita a Edoardo Massari e a Soledad Rosas).
    Ovviamente contro il movimento ambientalista viene applicata anche l’ordinaria repressione.

    In base ai dati forniti l’8 agosto 2024 dal Coordinamento anti-repressione, un collettivo che raccoglie i vari gruppi attivi contro la A69 (tra cui Attac, il Groupe national de surveillance des arbres- GNSA e La Voie est libre-LVEL, le organizzazioni con il maggior numero numero di arrestati) dalle prime iniziative del febbraio 2023 centinaia di persone sono state fermate, 130 quelle indagate, 60 i processi (tra quelli già avviati e quelli a venire).

    Sette attivisti si trovano in carcere e 44 sotto controllo giudiziario, 27 quelli con foglio di via.

    Tra le persone per cui la sentenza è già stata emessa, una è stata posta in libertà dopo 4 mesi di detenzione, un’altra è stata condannata a sei mesi. Per altri quattro condannati la pena si è trasformata in arresti domiciliari con braccialetto elettronico. In qualche caso la perquisizione, l’interrogatorio e l’arresto si sarebbero svolti con modalità discutibili. Alcuni hanno denunciato maltrattamenti e anche “fratture al volto che hanno richiesto interventi operatori” come confermato dai certificati medici.

    Gianni Sartori

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