(di Federico Rampini)
Al terzo giorno di scontri nella capitale dello Xinjiang, Urumqi, oggi la novità è la mobilitazione della popolazione locale di etnìa Han, il ceppo maggioritario in Cina. La manifestazione di centinaia di cinesi Han armati di mazze e decisi a farsi giustizia contro gli uiguri può innescare una ulteriore escalation nella violenza, fino a forme di giustizia sommaria e di guerra civile. A Urumqi i rapporti numerici sono già in favore degli Han: grazie alla massiccia immigrazione degli ultimi anni ormai l’etnìa locale di religione islamica rappresenta solo il 30% della popolazione nella capitale provinciale (che in tutto ha 2,5 milioni di abitanti). E’ proprio questa del resto una ragione dell’esasperazione degli uiguri: la sensazione che il loro destino è segnato, che non sono più padroni in casa propria, perché attraverso l’immigrazione la Repubblica Popolare li diluisce fino a renderli sempre più minoritari nella loro terra.
La situazione è analoga in Tibet: anche a Lhasa ormai i cinesi stanno superando i tibetani. E tuttavia nel marzo del 2008 dopo la rivolta tibetana gli Han non scesero in piazza, lasciarono che a riprendere il controllo della città fossero i professionisti della repressione: esercito, corpi paramilitari e polizia antisommossa. La risposta degli Han a Urumqi può avere diverse spiegazioni: il carattere ancora più radicale della contrapposizione con i musulmani, che non hanno un leader pacifista e fautore della non violenza come il Dalai Lama; la superiorità numerica ancora più schiacciante degli Han. Sicuramente però il governo di Pechino ha svolto un ruolo. In particolare attraverso l’uso selettivo delle immagini della rivolta da parte dei mass media di Stato. L’anno scorso sui moti di Lhasa all’inizio ci fu più censura e più discrezione, solo lentamente filtrarono notizie sulle tragiche morti di alcuni Han. A Urumqi invece la politica dell’informazione ha cambiato segno: immediatamente la tv di Stato Cctv ha diffuso immagini terribili e unilaterali, tutte di Han coperti di sangue. Un modo per istigare nella maggioranza cinese una voglia di vendetta. E’ uno scenario che può avere sviluppi perfino più gravi che in Tibet. Se Pechino decide di mettere in campo non solo la sua temibile forza repressiva ma anche la superiorità etnica, la “resa dei conti” con le minoranze riottose rischia di diventare ancora più selvaggia.
da Repubblica.it
Bell’articolo. Solo che mi ha portato a pesare alla Cina nel suo pensiero più ampio. Proprio in questi giorni il suo presidente è in Italia e già si parla di future apprezzamenti commerciali.
Mi ha fatto sorridere, d’amaro, il fatto che che l’ospitare ed incontrare un uomo di pace come il Dalai Lama abbia provocato discussioni. Incontrare il presidente di un paese che nega numerosi diritti basilari, che alza le spalle all’ambiente, e parlo della Cina non provochi nulla. solo perchè spendono.
E’ proprio vero che tutto il resto è acqua e scivola, di fronte al denaro. anche le parole magari dette 2 secondi prima.
Osceno, ecco come lo definirei.