Del Boca, la cattiva coscienza dell’Italia coloniale

(Raffaele Salinari, da Il Manifesto del 7 luglio 2021)

Ci ha lasciato Angelo Del Boca, la coscienza critica del colonialismo degli «italiani brava gente». Nato a Novara il 23 maggio del 1925; il padre aveva combattuto come fante nella prima battaglia dell’Isonzo durante la Grande Guerra e dunque già da piccolissimo si era dovuto confrontare con gli interrogativi che immancabilmente attraversano quanti hanno vissuto, più o meno direttamente, un’esperienza così traumatica. Nei libri autobiografici, in particolare in quelli che ricordano la sua esperienza partigiana, il ruolo testimoniale del padre e le ombre gettate sul suo mondo giovanile dalla Grande Guerra, diventano centrali nella formazione di una sensibilità verso i processi storici in generale e quelli coloniali in particolare. Continua a leggere “Del Boca, la cattiva coscienza dell’Italia coloniale”

McCann: “racconto due padri divisi dalla guerra ma uniti dal dolore”

Avvenire, 1 giugno 2021

Due padri uniti dall’empatia del dolore dopo la tragica morte delle giovani figlie. Un ebreo e un palestinese: potevano odiarsi rinfacciandosi i rispettivi lutti, invece diventano amici e insieme cercano la redenzione di fronte a un dolore così atroce. Rami Elhanan e Bassam Aramin sembrano due personaggi usciti dall’Iliade eppure sono autentici, reali, in carne e ossa. Smadar, la figlia 14enne di Rami, fu uccisa da un kamikaze palestinese mentre faceva shopping con le amiche, nel centro di Gerusalemme. Abir, 10 anni, figlia di Bassam, fu colpita a morte fuori dalla sua scuola da un giovane soldato israeliano che sparava proiettili di gomma su civili inermi.
 La tragica simmetria di quelle morti distrugge due giovani vite ma per una volta non genera desideri di vendetta perché i loro padri fanno conoscenza grazie a un’organizzazione di sostegno per genitori che hanno perso i figli nel conflitto. Continua a leggere “McCann: “racconto due padri divisi dalla guerra ma uniti dal dolore””

Bobby Sands, poesie dall’inferno

Avvenire, 12 maggio 2021

Sono riemerse dall’oblio all’improvviso, quasi come un fiume carsico, nuove testimonianze dall’inferno carcerario di Bobby Sands e dei prigionieri politici irlandesi. Scritti, lettere e memorie che a distanza di quarant’anni riaprono ferite lontane e mai rimarginate del tutto. Minuscoli pezzi di carta ormai erosi dal tempo, alcuni con quella firma inconfondibile – “Marcella, blocco H5” -, lo pseudonimo che Sands usò a lungo per firmare i suoi scritti clandestini dal carcere di Belfast, tra il 1977 e il 1981. Continua a leggere “Bobby Sands, poesie dall’inferno”

Jovan Divjak: eroe di guerra, costruttore di pace, uomo giusto

Avvenire, 9 aprile 2021

“Non chiamatemi generale, quelli sono tutti all’Aja”: l’umorismo, la modestia e la profonda umanità avevano reso il serbo Jovan Divjak un uomo popolarissimo nella sua Sarajevo, la città che aveva provato a difendere dal più lungo assedio del Novecento. Scomparso ieri all’età di 84 anni dopo una lunga malattia, Divjak è stato un soldato ma soprattutto un costruttore di pace. Continua a leggere “Jovan Divjak: eroe di guerra, costruttore di pace, uomo giusto”

Quando Bobby Sands voleva essere George Best

Avvenire, 13 marzo 2021

Quelli erano gli anni in cui George Best infiammava gli stadi di tutta Europa con la casacca rossa del Manchester United. Nei campetti di Belfast, sua città natale, c’erano schiere di ragazzini che sognavano di imitarlo. Uno di loro abitava poco distante da casa Best e qualche anno dopo sarebbe passato alla storia anche lui. Ma per ragioni assai lontane dallo sport. Da ragazzino, alla metà degli anni ‘60, Bobby Sands divideva il suo tempo libero tra le gare podistiche e la squadra di calcio della sua scuola, la Stella Maris di Rathcoole, un sobborgo di Belfast che a quei tempi era una zona mista in cui vivevano famiglie cattoliche e protestanti. Giocava mezzala, era esile, non aveva i piedi buoni ma correva veloce e soprattutto non mollava un pallone agli avversari. In breve tempo divenne un pilastro di quella squadra, la Star of the Sea, dove giocavano i cattolici come lui ma anche i protestanti e persino un mormone. Continua a leggere “Quando Bobby Sands voleva essere George Best”

Gli sport gaelici provano a unire Belfast

Venerdì di Repubblica, 8 gennaio 2020

Erano cinquant’anni che non si vedevano palloni da calcio gaelico e mazze da hurling a Belfast est. Più o meno da quando l’escalation di violenza che travolse l’Irlanda del Nord alla fine degli anni ‘60 non costrinse anche il St. Colmcille Gaelic Athletic Association a sciogliersi per sempre. La squadra intitolata a Columba di Iona, uno dei santi patroni dell’isola, promuoveva gli sport gaelici in uno spirito di fratellanza e inclusione ma avendo la sede e il campo da gioco nel cuore della roccaforte unionista protestante della città rappresentava un’anomalia insopportabile in tempi in cui a prevalere erano l’odio e l’intolleranza. Continua a leggere “Gli sport gaelici provano a unire Belfast”

Craig Hodges, pioniere dell’antirazzismo nella NBA

Avvenire, 19 dicembre 2020

Il primo ottobre 1991 a Washington è una splendida giornata di sole. I Chicago Bulls, freschi vincitori del campionato Nba, sono ospiti del presidente degli Stati Uniti George Bush nei giardini della Casa Bianca. Ci sono tutti tranne Michael Jordan, già leader di una squadra che si prepara a dominare gli anni ‘90. Ma quel giorno in pochi si accorgono dell’assenza del miglior giocatore delle finali perché un suo compagno di squadra ruba la scena a tutti. In mezzo a dirigenti e giocatori in rigoroso completo scuro e cravatta spicca un uomo vestito di bianco che indossa un dashiki, la tunica tradizionale dell’Africa occidentale. Per fugare ogni equivoco Phil Jackson, allenatore dei Bulls, spiega che il ragazzo in bianco è Craig Hodges, il miglior tiratore della squadra, e lo invita a dar prova delle sue abilità. Al termine dell’esibizione, che lo vede infilare nove tiri consecutivi da tre punti nel canestro della Casa Bianca, Hodges va dal presidente e lo informa di aver consegnato alla sua segreteria una lettera scritta di suo pugno. Era un disperato appello a migliorare le condizioni di vita dei neri.
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Igiene e distanziamento: così il ghetto di Varsavia sconfisse il tifo

Avvenire, 12 dicembre 2020

Per lo storico polacco Emanuel Ringelblum, fondatore dell’archivio del Ghetto di Varsavia, si trattò di un fenomeno semplicemente inspiegabile. Negli appunti ritrovati dopo la sua fucilazione da parte dei nazisti, lo studioso spiegava che quell’epidemia di tifo scoppiata nel ghetto all’inizio del 1941 doveva aumentare in modo esponenziale fino a raggiungere il suo picco in autunno. Invece la curva dei contagi calò improvvisamente del 40 percento fino a svanire del tutto proprio in concomitanza con l’arrivo del freddo, senza alcuna apparente spiegazione razionale. Continua a leggere “Igiene e distanziamento: così il ghetto di Varsavia sconfisse il tifo”

“Io so chi sono i 3532 morti dell’Irlanda del Nord”

Venerdì di Repubblica, 4 dicembre 2020

Per salvare la memoria del più lungo conflitto europeo del ‘900 Malcolm Sutton si è sobbarcato da solo un’opera titanica, estenuante, simile a quelle dei monaci del Medioevo. Ha trascorso anni nelle biblioteche di Belfast, scandagliando meticolosamente i giornali locali, incrociando informazioni, numeri e dettagli. In alcuni casi ha raccolto anche testimonianze dirette e atti processuali. Infine ha compilato un elenco completo e definitivo delle circa 3500 vittime del conflitto in Irlanda del Nord: nomi, volti, storie e una breve descrizione delle circostanze delle morti suddivise per età, status, appartenenza confessionale e area geografica. Ma la cosa forse più sorprendente è che abbia portato a termine un’impresa simile in modo del tutto volontario, senza alcun aiuto o sostegno economico, in un’epoca in cui ancora non esistevano né Internet, né la posta elettronica. Continua a leggere ““Io so chi sono i 3532 morti dell’Irlanda del Nord””